BLEED TURQUOISE, Bleed Turquoise
James Ginzburg è il 50% degli Emptyset. A nome Bleed Turquoise fa un esperimento lungo sette tracce: basso à la Joy Division/primi Cure in evidenza; tastiere gonfie e grezze molto più davanti nel mix, a volumi imbarazzanti e letteralmente invasive; accompagnamento percussivo vicino al trip hop, ma quest’ultima cosa prendetela con le molle.
In quanto musicista elettronico, Ginzburg sembra essere più propenso a giocare con ingredienti che in dosi diverse andrebbero a dare vita al pezzo di un quartetto chitarra-basso-batteria-synth vissuto in Inghilterra a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta, e per qualche motivo rimasto senza cantante. Tutto è una variazione su questo tema e probabilmente è un mutamento possibile solo oggi, in cui rumore e fisicità si sono infiltrati nella musica pop. Non è un’operazione distante da quella messa in atto dai Raime di Tooth, un disco in cui anche loro, provenienti dalla club culture, emulano una band “post-punk” (passatemi la definizione), ma facendola suonare secondo le loro regole e togliendole la voce: la grossa differenza sta in alcune scelte estetiche, perché Ginzburg occupa ogni frequenza possibile (del resto è uno degli Emptyset), mentre i Raime sono – come in passato, pur nella diversità – estremamente asciutti e molto attenti anche a lasciare tanto vuoto intorno a loro. Chissà se c’è qualche episodio meno conosciuto della storia musicale inglese che ha ispirato entrambi i progetti… Sia come sia, il disco si lascia ascoltare, il suo limite è che ripete sette volte lo stesso schema.