BLACK MOUNTAIN, Destroyer

BLACK MOUNTAIN, Destroyer

Destroyer è lo “shaker album” dei canadesi Black Mountain, nel senso che molte cose qui frullano: frulla la formazione, che vede il frontman ormai losangelino Stephen McBean (Pink Mountaintops, in parallelo) sempre spalleggiato da Jeremy Schmidt (Sinoia Caves, in parallelo) ma orfano della presenza di Joshua Wells e Amber Webber, ambedue sodali nei Lightning Dust, mentre torna della partita ancora una volta Arjan Miranda ed entrano in line-up Rachel Fannan (Sleepy Sun) – a sostituire proprio la Webber – e Adam Bulgasem (Dommengang & Soft Kill), oltre a collaboratori abituali come Kliph Scurlock (Flaming Lips), Kid Millions (Oneida) e il produttore John Congleton (St. Vincent, Swans); frullano i riferimenti, dato che si va a pescare dalle varie correnti stilistiche toccate con i precedenti lavori di studio, tra heavy-rock, sintetizzatori distopici e visionarie aperture psichedeliche, tra anni Settanta e Ottanta per farla breve.

La scaletta, nonostante tre o quattro episodi quantomeno articolati, è abbastanza compatta: otto brani, per poco meno di tre quarti d’ora di musica, che vanno dai riff “metallici” dell’iniziale “Future Shade” alle linee digitali sci-fi della comunque aggressiva “Horns Arising”, dal prog mai stucchevole dell’atmosferica “Closer To The Edge” alle colate hard con rinnovata alternanza di voce maschile/femminile di “High Rise”, dalle aperture space-folk con affondi zeppeliniani e coda canticchiabile di “Pretty Little Lazies” alla giocosa “Boogie Lover”, sino al palese omaggio glam a David Bowie di “FD 72”.

Il barbuto McBean, si narra nelle note stampa, ha ottenuto la patente di guida soltanto un paio di anni fa, a ben cinquant’anni, e ha occupato la maggior parte del tempo dal 2017 a oggi costruendo in maniera autoctona la copia di un modello di auto Dodge, soprannominato guarda caso Destroyer, ma magari il titolo ammicca anche al gruppo di Dan Bejar… Le scorribande su strada si fanno dunque metafora delle scorribande strumenti alla mano, queste ultime – inutile dire – condotte con imparagonabile esperienza: “Licensed To Drive”, tanto rétro quanto avveniristica, è in tal senso emblematica e non dispiacerebbe a Nicolas Winding Refn.

L’omonimo esordio, nel 2005, era stato un folgorante biglietto da visita, sorprendentemente inventivo nell’approcciarsi alla materia elettrica – quando stoner quando groovy – ma era stato In The Future, tre anni dopo, ad attestarsi come “pietra miliare” della band originaria di Vancouver, con il mixaggio dello stesso Congleton: sei corde granitiche in scia Black Sabbath, sospensioni oniriche, fughe filo-horror, testi apocalittici e copertina ispirata a Storm Thorgerson. Poi, sono arrivati il più classico, acustico e pop – per modo di dire, ovviamente, eh?! – Wilderness Heart e l’imponente e complesso IV, risalente al 2016, entrambi con lo zampino di Randall Dunn in cabina di regia. Nelle sparute fila degli ultimi portatori sani e credibili del r’n’r, i Black Mountain giungono adesso a un quinto disco da godersi con volume al massimo e spirito avventuriero. Niente di più perché non vi sono rivoluzioni da segnalare, niente di meno perché tutto suona al solito da paura.