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black midi, Hellfire

Viste le temperature dalle nostre parti, il titolo del nuovo disco dei black midi appare come minimo puntuale: forse siamo davvero arrivati alla bocca dell’Inferno ed Hellfire è la colonna sonora dell’Apocalisse. Previsioni meteo a parte, in molti attendevano il gruppo al varco del fatidico terzo album in questa torrida estate 2022. Parte della cosiddetta scena di Windmill insieme a Black Country, New Road e Squid, i black midi rappresentano la fazione più intransigente, estrema e colta della nuova ondata di band che dalle Isole Britanniche hanno conquistato l’Europa da cinque o sei anni a questa parte. Se infatti non siete mai stati a un concerto degli Idles o non avete mai pensato di tatuarvi addosso una frase in gaelico tratta da una canzone dei Fontaines D.C., poco male, perché non c’è bisogno di pogare o di ricorrere a gesti di devozione estrema: forse siete tipi da black midi, in cerca di ascolti più posati e meno emotivi. Dopo l’acclamato debutto tra noise e prog di Schlagenheim, l’anno scorso era arrivato il seguito Cavalcades, con obiettivi ancora più ambiziosi: far incontrare tradizioni alte e basse, tendenze geriatriche e nuove di pacca. Hellfire più o meno conferma il trend di Cavalcades e imbastisce una sorta di sound da big band jazz con inserti prog, sfuriate metal-noise, rap a pioggia, improvvisi cambi di passo folk e country. Come logico le influenze che vengono in mente sono molte, dal math americano degli anni Novanta al Canterbury Sound e al prog in generale (Genesis prima di tutti, ma anche King Crimson, vagamente i Gong). Normale paragonare la band londinese a Frank Zappa, ma più preoccupante l’accostamento ai Van Der Graaf Generator di Peter Hammill: i black midi sono ottimi musicisti, in grado di operare cambi vertiginosi nelle strutture dei pezzi, sciorinare rap velocissimi e ornare il loro sound con sontuosi arrangiamenti da big band. Tuttavia, di eversivo, profondo, minimale, se non addirittura filosofico, come la musica di Peter Hammill, c’è ben poco: ci sono le gigionate di Zappa (in misura molto modesta, s’intende), molti guizzi di maniera e il tentativo incessante di stupire l’ascoltatore. In questo marasma si nota l’immensa bravura del batterista Morgan Simpson, ma per il resto tutto rimane sullo sfondo, un po’ appiattito e indistinto. Almeno il predecessore Cavalcades era costruito tutto attorno ai dieci minuti dell’epica “Ascending Forth”: a Hellfire manca un epicentro, il che dà ancora di più la sensazione di ascoltare un immenso esercizio di stile. L’impressione, come con Idles e Fontaines D.C., è che sotto la superficie ci sia poco da mostrare.