BLACK COUNTRY, NEW ROAD, Forever Howlong
È la terza volta che si parla dei Black Country, New Road, passo-passo per ogni disco di studio, e mai che le cose siano rimaste come le avevamo lasciate, a eccezion fatta di Ninja Tune a marchiare il tutto. Forever Howlong un tubo, insomma. Il cambiamento principale è stavolta ai microfoni, poiché a sostituire Isaac Wood, che se ne era già andato dopo la pubblicazione di Ants From Up There, troviamo Tyler Hyde (basso), Georgia Ellery (violino, in parallelo nei fantastici Jockstrap) e May Kershaw (tastiere), ad alternarsi o intrecciarsi in ardite armonizzazioni. Un terzetto all’interno del sestetto, completato da Lewis Evans (sax), Charlie Wayne (batteria) e Luke Mark (chitarra), che garantisce “prospettiva femminile”, a loro stessa detta, anche nella scrittura dei brani, sviluppati come d’abitudine in sede concertistica (a proposito, nel 2023 era uscito il transitorio Live At Bush Hall, ma adesso occhio soprattutto alle prossime date annunciate in Italia).
Rimane pochissimo dell’affinità con la scena post-punk gravitante attorno al The Windmill di Brixton, così come nello specifico dei paragoni con black midi, nel frattempo scioltisi, e Squid, se non questo interessante senso di generazionale moto perpetuo, in avanscoperta. Il collettivo inglese fa dell’amicizia il proprio collante, come suggerito dal primo singolo “Besties”, e sa ripatire da capo, sa adattarsi ai cambiamenti. Con la lucente produzione di James Ford (Depeche Mode, Blur, Arctic Monkeys, Fontaines D.C.), Forever Howlong è un kit di sopravvivenza che impacchetta pop barocco, folk jazzy e alt prog-rock, riponendo in saccoccia le influenze di Randy Newman, Fiona Apple e Joanna Newson. L’effetto è a tratti però stucchevole. Ogni greve nervosismo rimpiazzato da un’eterea levità, orientandosi a sonorità maggiormente acustiche. Ci sono canzoni più dirette e concise per quanto arrangiate spesso in pompa magna (la succitata “Besties”, “Salem Sisters”, “Happy Birthday”), senza farsi mancare mini-suite più articolate (“Socks” non sarebbe dispiaciuta ai ben più inventivi The Fiery Furnaces, “Two Horses” sembra galoppare tra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta, “For the Cold Country” cresce in fanfara). Per non rischiare di scottarsi, basta saperlo: un’altra band rispetto a prima. Al prossimo episodio?