BLACK COUNTRY, NEW ROAD, For The First Time

Sei brani per quaranta minuti di durata, dei quali solo due a oggi completamente inediti, che hanno fatto e continueranno a far parlare molto in questo 2021. Gli inglesi Black Country, New Road sono già stati definiti la miglior band del pianeta da The Quietus: esagerazioni, ok, eppure in futuro mai dire mai… Nato dalle ceneri dei Nervous Conditions, formazione archiviata dopo le accuse di molestie sessuali indirizzate al cantante Connor Browne, il collettivo conta attualmente sette elementi, alcuni dagli studi classici (Giorgia Ellery dei Jockstrap al violino, Lewis Evans al sax), altri puramente autodidatti (Tyler Hyde, figlia di Karl degli Underworld, al basso). Collettivo che, è d’obbligo specificarlo, si muove nella stessa scena di Brixton, nel quartiere di South London, gravitante attorno al pub The Windmill, dove tra una birra e l’altra transitano in scioltezza anche Shame e Goat Girl, entrambi per le cronache di fresco e meno irruente ritorno con i rispettivi secondi album di studio. Ai Black Country, New Road – ragione sociale, si narra, trovata su un generatore casuale di Wikipedia – sono però forse più affini, rimanendo in zona, i destabilizzanti e altrettanto ambiziosi black midi (menzionati d’altronde nella più atmosferica “Track X”, perché ecco l’amore ai tempi del Windmill: I told you I loved you in front of black midi) oppure gli Squid, attesi al debutto a maggio.

Il debutto dei Black Country, New Road, per l’appunto intitolato For The First Time, è invece arrivato a inizio febbraio per Ninja Tune e, se sarà associato al rinvigorito movimento post-punk, è da intendersi più per un senso di forte tensione di fondo che non strettamente stilistico. Certo, in ogni caso la voce profonda e ieratica di Isaac Wood (I am ‘modern-Scott Walker’ è il proclama auto-ironico nella logorrea esagitata di “Sunglasses”), con la ferocia delle chitarre associata ai sassofoni stratificati, rimanda a determinate coordinate a cavallo tra anni Settanta e Ottanta, che vanno ad aggiungersi a un grande accento posto sulle dinamiche e a un approccio decisamente avant nell’intreccio degli strumenti, compresi archi spesso in loop, e nelle influenze sonore, da no wave, post-rock e free jazz alla musica tradizionale dell’Est Europa, sventolata subito nell’introduttiva “Instrumental” e usata per congedarsi in “Opus”. Basti pensare che i ragazzi sono diventati lanciatissimi grazie all’uscita di appena un paio di singoli (“Athens, France” e il succitato “Sunglasses”), sommati ai successivi “Science Fair” e “Track X”, qui però tutti reincisi, come se il loro materiale senza definite strutture formali fosse un continuo work in progress allungato a fotografare l’attimo fuggente, la spontaneità delle performance in presa diretta, registrate in una settimana scarsa da Andy Savours (in precedenza al lavoro con i My Bloody Valentine). Gli echi sono quelli di Birthday Party, Fall e Slint (questi ultimi esplicitamente tirati in ballo in “Science Fair”), tra gli altri, mentre i testi di Wood sanno fare tesoro dell’umanesimo noir di un nome tutelare come Kurt Vonnegut quanto confrontarsi con l’alienazione da social media o masticare citazioni pop ben criptate (Phoebe Bridgers, Kanye West…). È buio pesto fuori, nella società industrializzata, ma, hey, c’è un’altra nuova strada all’orizzonte se si vuole provare a imboccarla.