BLACK COUNTRY, NEW ROAD, Ants From Up There
I Black Country, New Road non sembrano appartenere più di tanto alla loro generazione e infatti sfornano dischi a getto continuo, senza starci a pensare troppo, come si usava fare una volta. Forse battono anche il ferro dell’hype finché è caldo, chissà. Fatto sta che Ants From Up There arriva solo un anno dopo il sorprendente esordio For The First Time, sempre su Ninja Tune, e prende già le distanze da parecchi punti di riferimento dati avventatamente per assodati: dall’originaria scena tra mille virgolette post-punk di Brixton e del pub The Windmill (black midi e Squid, entrambi titolari nel 2021 di due ottimi dischi, sono altrettanto metamorfici ma decisamente più futuristici e quindi post-apocalittici), così come – ed è l’aspetto più interessante – dalla prima versione di se stessi. Qualcosa, nello specifico il recentissimo annuncio della defezione del vocalist e chitarrista Isaac Wood dal gruppo, con conseguente annullamento dei concerti dei prossimi mesi, lascia intuire che i cambiamenti siano soltanto all’inizio.
Da queste dieci nuove tracce, registrate nel corso di tre settimane all’Isola di Wight con il produttore Sergio Maschetzko e l’ingegnere del suono David Granshaw, emerge più gioia che tensione. Le nuance jazzy evidenziate dal sax permangono, a sospingere però brani in qualche maniera più classici, più orientati in direzione di un pur irrequieto songwriting che all’improvvisazione (in casi come “Haldern” le due cose sono andate a coincidere). Non che manchino riferimenti colti per l’operosa e indomabile formazione inglese (“Bread Song” trae ispirazione dalle composizioni di Steve Reich, “Mark’s Theme” è roba neo-cameristica estremamente galante, “Snow Globes” rotola a lungo sul post-rock passando dallo storytelling alla cacofonia), ma qui vengono fuori generi maggiormente decodificabili, dall’indie folk-pop all’alt-rock, tanto che un pezzo come “Chaos Space Marine” si avvicina alle ricche celebrazioni bandistiche degli Arcade Fire con archi, tasti e quant’altro, e “Good Will Hunting” – il titolo si rifà all’omonimo film che, ciononostante, non c’entra niente – persegue la melodia applicata ai cambi di dinamica tipici appunto dei collettivi pop-rock.
Wood prova ad avvicinarsi spesso al cantato, sfiorando a volte il crooning, superando la prevalente scelta della declamazione e veicolando testi, tra una citazione e l’altra inclusa Billie Eilish, un filino più universali nell’approcciare argomenti come fuga e distacco dal mondo circostante. “Concorde” è una ballad sulle ali della raffinatezza strumentale e “The Place Where He Inserted The Blade” nasce come personale omaggio al tardo Bob Dylan, mentre il motivo ascoltato nella “Intro” riappare nella conclusiva e super articolata “Basketball Shoes”, la prima canzone a essere stata invero scritta, a riannodare i fili di un lavoro ideato esattamente come un album, con un principio e una fine. Con un viaggio, nel mezzo, da primi della classe in prima classe che per paradosso risulta al contempo più spontaneo e (a tratti) accessibile rispetto al precedente giro di giostra. Un passaggio verso destinazioni ancora da stabilire, ad ogni modo, se mai verranno stabilite.