BJ NILSEN, Focus Intensity Power
L’improvvisazione è fertile. L’improvvisazione è un sentire interiore. L’improvvisazione è, soprattutto, dare forma a qualcosa poco alla volta. Ed ecco una serie di note come canovaccio di partenza, alcuni sintetizzatori modulari, generatori di toni e altri strumenti utili per sublimare una breve residenza di BJ Nilsen presso il Willem Twee Electronic Music Studio di Den Bosch, in Olanda. Cinque brani, pubblicati dalla Moving Furniture Records, che rivelano un altro lato artistico del musicista svedese di stanza ad Amsterdam. Breve ma intenso, Focus Intensity Power rappresenta una piccola pausa dal suo tradizionale interesse nei confronti delle registrazioni dal vivo, sia naturali che urbane, al centro, ad esempio, di The Invisible City (2010) ed Eye Of The Microphone (2013), i cui brani hanno ripetutamente sottolineato la sua notevole capacità narrativa.
Questa volta ci si concentra sul suono emesso dai soli macchinari. Un album privo di un vero e proprio concept come i precedenti, ma robusto, dominato da bordoni e altri impulsi analogici. Rumori, forse, meno sorprendenti di quelli registrabili all’aria aperta e modificabili in seguito in studio che, però, sono forieri di una certa libertà poetica, espressa per la prima volta al chiuso. In buona sostanza, BJ Nilsen scambia il suo impermeabile di cera per il tipico manto bianco da laboratorio. Da esploratore a sperimentatore. L’etichetta olandese celebra così i dieci anni di attività, segnati da circa sessanta release da collocare tra ambient, drone, field recording e sonorità minimal, firmate da artisti già affermati, è il caso Gareth Davis, Machinefabriek e Merzbow, o altri sulla rampa di lancio, come Find Hope In Darkness, Haarvöl e Rose & Sandy. Un discreto traguardo.
L’apertura di Focus Intensity Power è affidata alla solida “Beam Finder”. Un loop dalle impercettibili variazioni si dilata nell’arco di dieci minuti. La sfida alla relatività si protrae sino al netto stacco che cattura l’attenzione dell’ascoltatore all’aumentare dei sibili per una parte finale meno prevedibile. Così come “Flattened Space”, dal sound tanto graffiante quanto saturo. L’aria diviene pesante in una manciata di istanti. La successiva “The Sound Of Two Hands” rimarca in modo più incisivo lo scorrere del tempo: le lancette continuano a scandirlo inglobando il consueto ‘tic tac’ al netto dello sferragliare di altri elementi sonici. L’architettura di Table Of Hours rimanda, invece, a quelli propri di progetti precedenti. Neri come la pece, fondati su quel drone a cui è impossibile sottrarsi. La seconda suite, “The Limits Of Function”, è l’ennesima introspezione visionaria.