BITTER FUNERAL BEER BAND, Live In Frankfurt 82 (with Don Cherry and K. Sridhar)
Bitter Funeral Beer Band era la band di Bengt Berger, batterista svedese anche in Archimedes Badkar (un nome che non suonerà nuovo ai cultori di certo prog), agitatore culturale ed eroe dell’underground scandinavo degli anni Settanta, con alle spalle studi e soggiorni etnomusicologici in India e in Ghana. Profondamente influenzato dalla potenza ipnotica di queste musiche, fondò nel 1980 la Bitter Funeral Beer Band, un ensemble di 12 elementi basato sull’idea della musica funebre tradizionale dei Lo- Birifor, una popolazione del nord del Ghana. In questo disco, dunque, predomina la componente rituale, con un incrocio interessante ma non sconvolgente tra poliritmi africani – che tengono ancorati alle profondità ancestrali della terra – e fragranze spirituali come inni devoti al cielo jazz quartomondista di Don Cherry, ospite della band in questo live a Francoforte del 1982. Uscito originariamente nel 2007 su Country & Eastern (e nomimato all’epoca per i jazz grammy svedesi), questo è il terzo frutto del lavoro dei dodici apostoli della sacra parola afrofolkjazz, dopo un esordio targato ECM nel 1981 e un secondo disco, Praise Drumming, uscito sulla svedese Dragon Label.
La Black Sweat di Milano, non nuova a queste operazioni di recupero, riporta alla luce un disco che era stato pubblicato in Svezia undici anni fa, ma che risale in realtà all’alba degli anni Ottanta. Poderoso l’arsenale di strumenti messo in campo, tra xilofoni tradizionali dei Lo-Birifor, tamburi, sax tenore, clarinetto, tromba, la cornetta di Don Cherry, bassi e chitarre acustiche ed elettriche, violoncello, percussioni (suonate da ognuno dei musicisti coinvolti) e il sarod (un cordofono pizzicato, che assieme al sitar è lo strumento principe della tradizione dell’Hindustan) di K. Sridhar.
Cosa ascoltiamo in queste cinque tracce? Un incontro tra la musica indiana tradizionale del Karnataka e il jazz, con il sarod di Sridhar a fiorire in un 3/4 modale e ossessivo (“Darafo”). Un inno free a una qualche divinità serena e compiacente, con la cornetta di Cherry e le voci di questi freak a pregare affinché il passaggio delle anime al mondo dei più sia dolce e affinché la terra ai corpi privi di vita sia lieve (“Bitter Funeral Beer”). Una jam (“Chetu”) che suona come un baccanale e ricorda l’ossessività delle ritmiche sentite secoli fa sulla compilation “Drums Of Death”, guardacaso proprio dedicata alla musica funebre degli Ashanti e degli Ewe nel Ghana, uscita sulla giapponese Avant nel 1997. Fulcro dell’intero lavoro è però la “Funeral Dance”, una sarabanda corale (… e “vitalistica”…) dal groove incalzante e stracolma di entusiasmo panico, dalla durata fluviale di oltre 25 minuti.
Un buon documento, non trascendentale, nonostante il clima pagano diffuso e le buone vibrazioni dispensate a piene mani. In alcuni momenti si vola per davvero, altrove il feeling è un poco didascalico, anche se certi sapori sono simili al palato a quelli deliziosi che ci hanno lasciato capolavori come Brown Rice di Don Cherry oppure On The Beach di Phil Cohran (morto l’anno scorso dopo una carriera stellare che lo ha visto militare nella Sun Ra Arkestra, inventare uno strumento, il Frankiphone, una sorta di kalimba elettrica, e fondare assieme ai suoi figli l’Hypnotic Brass Ensemble). Sarebbe stato senz’altro bello essere presenti al concerto, sono certo che l’atmosfera generale fosse di quelle giuste. Tre quarti d’ora di amore cosmico e terreno, per una musica dotata di un forte valore politico (in tempi di respingimenti, xenofobia e via precipitando, questi pezzi sono un manifesto di rispetto, accoglienza e tolleranza), capace comunque di farci fare una gradita fuga dagli affanni dell’attualità e di regalarci la speranza che forse, siccome in fondo la storia è ciclica, non siamo condannati a morire col faccione di Salvini che imperversa con le sue porcherie.