BILL MACKAY, Locust Land
Bill MacKay, chitarrista, multistrumentista di Chicago, giunge con Locust Land al quarto album solista dopo Esker (2017), Fountain Fire (2019) e Scarf (2020), tutti su Drag City, e dopo le fertili collaborazioni (fra cui spiccano quella coi Black Duck, quella assieme a Cooper Crain nei BCMC e quella con la violoncellista Katinka Kleijn) e naturalmente la consolidata partnership che lo vede da anni stretto collaboratore di Ryley Walker. Si concede una pausa rilassata concentrandosi su di un raffinato songwriting à la Fred Neil per i pezzi cantati, mentre nei pezzi strumentali pare una versione aggiornata, solare e seducente dell’alternative anni Novanta e del post-rock, “genere” d’altronde cresciuto in quegli stessi anni giusto nella windy city.
Bill suona tutti gli strumenti coadiuvato da una manciata di amici: il geniale bassista Sam Wagster, Mikel Avery alle percussioni, Janet Bean alla voce e dunque, senza increspature, la musica contenuta in Locust Land si svolge ariosa e positiva in una sequenza di nove brani uno più bello dell’altro, dall’intro strumentale “Phantasmatic Fairy” passando via via per le pulsanti “Oh Pearl”, “Radiator”, “When I Was Here”, l’eterea “Neil’s Field” fino alla conclusiva “Locust Land” con gli intarsi di chitarre elettriche ed acustiche, l’incedere del pianoforte, un organo distante che restituisce tridimensionalità allo spazio acustico e dove tutto sembra idilliaco e pastorale eppure, eppure con quel titolo e l’immagine che inevitabilmente evoca qualcosa “sotto” non torna. Bill MacKay sarà fino a settembre impegnato in un lungo tour europeo, intercettandolo magari potremmo anche chiedergli a cosa si riferisca con “terra della locusta”… io un’idea ce l’avrei!