BEN FROST, Broken Spectre
Nel 2015, il Padiglione Irlandese alla 55° Esposizione d’Arte della Biennale di Venezia sceglie come proprio esponente il fotografo Richard Mosse, con il perturbante “The Enclave”. Si tratta(va) di un’installazione multimediale, formata da 6 schermi posizionati irregolarmente nello spazio claustrofobico del Fondaco Marcello. Ciò che attira l’attenzione però sono le sequenze video riprodotte, le quali sembrano ritrarre paesaggi surreali sulla falsa riga degli scenari creati da Jeff VanderMeer e Brian Catling; uomini armati fino ai denti percorrono sentieri sperduti che si snodano lungo una sbalorditiva vegetazione dalle tinte rosate. Quello che parrebbe un mondo alieno non è nient’altro che il risultato della pellicola ad infrarossi utilizzata dallo stesso Mosse per riprendere la cruda esperienza nella Repubblica Democratica del Congo, tra zone di invisibile guerriglia e strazianti scenari naturali. “Invisibile” è forse il termine che più si accosta all’intento di “The Enclave”, data la capacità della strumentazione utilizzata dal fotografo di mettere in luce uno spettro cromatico impercettibile all’occhio umano, in concomitanza con la ripresa di brutali situazioni ai più estranee e sconosciute.
Il progetto tuttavia vanta un ulteriore elemento fondamentale, che si intreccia alle distorte visioni su pellicola. “The Enclave” segna l’inizio della collaborazione tra Richard Mosse e Ben Frost, artefice dei prodigi sonori che rendono questo progetto unico. Il compositore australiano, infatti, adotta un approccio di field recording viscerale nella realizzazione del comparto audio: egli non si limita a registrare in maniera semplicistica i suoni che la violenza della giungla congolese offre, ma realizza una composizione in cui sound design e musica elettronica sfruttano i limiti percettibili delle stesse frequenze naturali per far emergere una realtà sonora invisibile. Sonorità che brulicano al di sotto dello spettro uditivo umano vengono valorizzate, riflettendo la volontà del comparto visivo di “The Enclave”.
Ben Frost è un artista che da sempre opera con gli elementi intrinsechi del suono, come il volume o, per l’appunto, frequenze al limite dell’udibile. I suoi progetti scavano nelle possibilità sonore, attraverso il connubio tra ricerca teorica, musica elettronica sperimentale e un sound design elaborato; nascono così produzioni come AURORA (2015) – in cui vengono ripresi i temi e le sonorità di “The Enclave” – e The Centre Cannot Hold (2017), dove la gestione di volumi e spazi gioca un ruolo fondamentale. Le molteplici collaborazioni con Richard Mosse permetteranno inoltre la realizzazione e lo sviluppo di una serie di progetti incentrati sulla liminalità della fotografia e del suono, come la massiccia installazione video “Incoming” (2017) per il Barbican Centre di Londra, in cui i campi per rifugiati e le zone di transito in Libia, Siria e nel Golfo Persico divengono teatro di una frastornante distorsione audiovisiva.
Tuttavia, è forse nell’ultimo progetto di Ben Frost che si può ritrovare la massima potenzialità espressiva dello spettro sonoro. Broken Spectre è un minuzioso album di 12 tracce, derivante dall’esperienza in Amazzonia di Frost e Mosse, entrambi impegnati nella documentazione dei disastrosi esiti ambientali a seguito della costruzione della Strada Trans-Amazzonica BR-230. Si tratta di un processo durato 4 anni, precisamente dal 2018 al 2022, attraversando le zone fluviali a ridosso della catastrofe, l’Ecuador, le aree del Pantanal e nei territori dei Munduruku e degli Yanomami. Ciò che rende unico il lavoro del compositore australiano è il processo di registrazione adottato all’interno dell’ecosistema amazzonico. La maggior parte della fauna presente infatti comunica tramite una serie di suoni al di fuori dello spettro uditivo umano, costringendo Frost ad utilizzare una peculiare strumentazione in grado di registrare gli ultrasuoni. I risultati sono stati successivamente modificati tramite una massiccia postproduzione, rendendoli udibili tramite la modifica del pitch. Nasce così un perfetto riflesso del concetto stesso di ecosistema – in questo caso lo si può definire come ecosistema sonoro – che ripercorre la pratica di Frost fin dalle sperimentazioni iniziate con “The Enclave”.
La componente di sound design si interseca con una musica essenziale, confondendo i suoni naturali con quelli creati da Frost. A riprova di ciò, Broken Spectre introduce il suo mondo sconosciuto tramite la minimale “Report From An Obscure Planet”, una suite di droni ovattati e cinguettii acuti, in cui musica e sound design scambiano perpetuamente la loro postazione. Una pioggia torrenziale e percussiva inonda le lande di “The Index”, dove Frost setta definitivamente le regole del suo universo sonico. Le incursioni pulsanti dei synth si evolvono in un continuo e invasivo crescendo, muovendosi da uno speaker all’altro freneticamente. L’uso dominante del panning – altro marchio di Frost nelle sue opere – sfocia nell’ossessivo finale, dove sonorità simili a sirene d’allarme pongono l’ascoltatorə in uno stato d’allerta perenne, quasi a presagire l’avvento dell’inaffrontabile. L’ecosistema di Broken Spectre vibra e respira affannosamente, dilatandosi in una miriade di forme scolpite da Frost. I battiti di “Love In A Colder Climate” mutano ben presto nella pulsazione cavernosa di “The Burning World”, la quale, in combinazione con quello che parrebbe essere il richiamo un volatile notturno, crea un senso di assordante alienazione. Rami e foglie vengono rotti e calpestati nella solitudine del mondo di Frost, supportati da un drone terrificante che lascia gradualmente spazio alle dissonanze sintetiche di “Passport To Eternity”.
Quasi memore dell’eredità di Outside The Circle Of Fire (1998) di Chris Watson, “The Intensive Care Unit” porta la capacità di Ben Frost come foley artist ai suoi massimi livelli; una traccia scarna, senza orpelli melodici, retta solamente dal respiro affaticato di un leopardo e dalle microscopiche incursioni ad alta frequenza di un volatile, ad emulare forse il segnale delle macchine per il monitoraggio del battito cardiaco. Perfino nei titoli dei propri brani, l’album si dimostra diretto e esemplare nel suo intento. “Garden Of Time” infatti si struttura come un pervasivo loop incastonato nel tempo, congelandosi apparentemente nella staticità dei quasi 6 minuti che lo compongono. Tuttavia, i lamenti impercettibili e articolati che si ripresentano gradualmente nell’ascolto vanno a popolare un ambiente con le proprie infinitesimali creature. Ancora una volta Frost insiste nel suo scopo: la creazione di una narrazione in grado di riflettere le urgenti problematiche di un mondo tanto invisibile quanto presente. L’ascolto di Broken Spectre è un’esperienza che riconduce all’entrata in un luogo di orrore inumano, al pari del varcare le informi soglie del Vorrh, dove forze invisibili operano al di là della percezione umana.
Le tracce si alternano in momenti di puro field recording e situazioni di dominante spaesamento, dettato da synth pulsanti e tonalità agghiaccianti. “Cry Hope, Cry Fury” e “The Killing Ground” propongono dapprima un brulicante universo più vivo che mai, dove bestie vengono annegate in riverberi cavernosi che ne alterano la percezione, per poi farsi sostituire dalla freddezza metodica delle pulsazioni sintetiche. A seguire, “Low Flying Aircraft” ripropone il frenetico baccanale dei volatili pluviali, fatto di sample che ricordano sempre più strumentazioni di origine artificiale. Avvicinandosi alla conclusione, “A Guide To Virtual Death” rappresenta il finale apparente del disco; la traccia sfoga tutta la componente musicale all’interno di Broken Spectre, dislocando i pad convulsi di Frost in un bailamme che sposta l’attenzione da un orecchio all’altro. Il Bacino Amazzonico si mostra come un mondo inconcepibile, la cui natura non appartiene alla percezione umana. I synth compongono melodie estranianti, urla sintetiche, sconnesse ed eterne, circondate da una fauna che grida in silenzio. Il vero finale è costituito da “The Crystal World”, dove il monito di Frost è più incisivo che mai. Registrazioni di uccelli, insetti, piccoli mammiferi e rettili che strisciano inesorabilmente, portando alla luce la necessità di un’azione repentina. Una dimensione dalla rara fragilità, una foresta di cristalli oramai sull’orlo della fine.
Broken Spectre è prima di tutto un atto politico, nella sua più primordiale accezione; come espresso da Frost in un panel a lui dedicato all’evento Loop di Berlino nel 2017, il processo della registrazione è un evento profondamente politico. È l’artista in primis a decidere quale materiale sonoro collezionare e successivamente come e a chi riprodurlo, rendendo di fatto il suono un modulatore affettivo. Un album che rimanda direttamente alla teoria di Steve Goodman e al suo sonic warfare – l’applicazione dei sistemi di registrazione e riproduzione sonora nella modulazione sensibile delle emotività e dei corpi – in cui l’uso di frequenze sconosciute viene valorizzato. Un processo che si sviluppa con il primario scopo di creare una consapevolezza rivolta al di fuori della concezione umana.
Ben Frost costruisce una narrazione solida e ben definita, nonostante il paradossale tema su cui si erge sia l’impercettibilità. L’ambiente invisibile, così come la catastrofe che ne scaturisce, viene riproposto dall’artista tramite una drammatica architettura sonora.
C’è un qualcosa che si nasconde nelle tracce di Broken Spectre, un qualcosa che Frost vuole mostrare all’ascoltatorə tramite le angoscianti premonizioni di un disastroso futuro fin troppo prossimo. Un disco che irrimediabilmente rievoca gli spettri di “The Enclave”. Sì, perché proprio di spettri si parla: elementi impercettibili ma presenti, ma anche l’estensione della capacità uditiva/visiva, o una figura infestante al di fuori della concezione umana. Un ecosistema a tratti inconcepibile, che diviene un’ entità che ricorda gli spazi più perturbanti dell’Area X di VanderMeer, pieni di fenomeni sconosciuti. Ben Frost costruisce un mondo fantasma che pare ergersi al confine con territori fantascientifici pervasi da una terrificante aura di ignota matrice, mostrandoci che, per quanto nascosto, l’orrore è più udibile che mai.