Ben Frost: alto rischio, alta ricompensa
Abbiamo conosciuto Ben Frost a Cracovia durante l’edizione 2014 del festival Unsound e lo abbiamo re-incontrato più volte durante i suoi passaggi romani, suggellati sempre da un grande successo di pubblico e critica. In effetti Frost con la sua produzione raggiunge più strati di consenso e questo a onor del vero senza mai scendere a compromessi: che siano album originali, colonne sonore per film o per serie tv, il livello della sua musica risulta essere invariabilmente di qualità ma anche, e qui sta il punto, di significativa “difficoltà”. Con notevole iperbole oggi Ben Frost mi appare, nella musica elettronica, nel ruolo che nel cinema occupò un regista come Stanley Kubrick: poche opere selezionate, di genere sempre diverso se non contrastante, ma col tocco personale da Re Mida! L’intervista si è svolta in due fasi: la prima a ridosso del concerto romano, l’altra dopo quello berlinese. Significativo il progresso avvenuto nella messa a punto live fra i due concerti: avevamo infatti notato sul palco dell’Auditorium una palese insoddisfazione del risultato in particolare da parte di Greg Kubacki. Ecco dunque che le riflessioni di Ben Frost sono particolarmente interessanti sia per quanto riguarda la sfida che Scope Neglect comporta e le difficoltà che implica nel live, sia per i temi più ampi affrontati.
Ben, siamo estremamente interessati a questo progetto in trio come al nuovo disco Scope Neglect. Credo sia la prima volta che suonate insieme: quando e come è nata questa all-star-band che è ora impegnata in un lungo tour europeo partito a gennaio dal CTM berlinese e che approderà di nuovo in Italia ad aprile?
Ben Frost: È stato necessario molto tempo, ma avevo un’idea abbastanza chiara dell’approccio che volevo adottare con questo nuovo album, e una volta arrivato il momento di prenotare lo studio di registrazione, si trattava di coinvolgere musicisti che in un certo senso incarnassero questa particolare “estetica-Scope Neglect”. Liam Andrews, bassista dei MY DISCO, lo conoscevo da anni ed ero davvero entusiasta di lavorare finalmente con lui, sapendo che ne sarebbero derivate grandi cose, il suo approccio è estremamente spigoloso e comprende lo spazio negativo come nessun altro e d’altronde la sua band è stata un’enorme influenza su di me per oltre vent’anni. Veniamo tutti da Melbourne, ma ci è voluto così tanto tempo per metterci insieme in una stanza! Per quanto riguarda Greg Kubacki, beh… è stato un vero salto nel buio ma ero semplicemente un grande fan dei Car Bomb.
Scope Neglect mi sembra un disco forte e di precisione chirurgica: come hai lavorato in studio con Liam e Greg?
Non avevo mai incontrato Greg Kubacki prima che arrivasse a Berlino per iniziare a registrare, quindi abbiamo sicuramente puntato sull’effetto sorpresa, da sempre mi butto anima e corpo nelle collisioni di genere: alto rischio, alta ricompensa. È stato subito chiaro che Greg era disposto a fare le cose in modo diverso e ad avvicinarsi al suo lavoro da un’altra prospettiva. Abbiamo parlato molto di attrito e resistenza, di spazio negativo e di come volevo che le chitarre si bloccassero in un particolare momento, tuttavia rimanendo come sospese in quello spazio e senza deviare. Suppongo che quello che stavo cercando fosse una sorta di ripetizione della forma in cui il cambiamento emerge lentamente e deliberatamente. A un certo punto abbiamo ascoltato molto “A Rainbow In Curved Air” di Terry Riley, perché è stata una grande pietra di paragone per me. Ho finito per cancellare gran parte di ciò che Greg ha suonato in studio durante le registrazioni, poiché la sua unica funzione all’interno della musica era motivare un certo tipo di moderazione nelle performance. Ho creato appositamente delle tracce di batteria per dare a lui e a Liam delle strutture su cui muoversi, sapendo che alla fine le avrei tolte, quindi ciò che rimane è questa sensazione che ci sia un’architettura invisibile attorno alla quale le chitarre ruotano, che abbiano una consapevolezza dello spazio. È difficile da spiegare, ma sento che questo riorienta l’equilibrio nella musica, cambia il modo in cui la ascoltiamo e crea un diverso tipo di silenzio.
La prima volta che ho ascoltato Scope Neglect dal vivo a Roma è stato come essere gettato al centro di una tempesta magnetica, poi ho approfondito il significato psicoanalitico del titolo che, in sintesi, sta per “intorpidimento di massa”. Corretto?
Tempesta magnetica? È piuttosto pertinente! C’è una volatilità in quello che cerco di fare sul palco che è principalmente il risultato di una netta mancanza di controllo e mi diverto in quello spazio. Quella prima serie di spettacoli in autunno, incluso quello che hai visto a Roma: erano le prime volte che suonavamo insieme, ed è stato particolarmente difficile dal punto di vista tecnologico, pieno di problemi tecnici che da allora abbiamo risolto. Onestamente avrei voluto che fosse diverso, ma da qualche parte dovevamo iniziare.
Probabilmente è difficile percepirlo dall’esterno. Perché a livello di pubblico penso che ci sia ancora una generale poca conoscenza su come funziona la musica elettronica “dal vivo”… voglio dire, visivamente, sonicamente, qual è effettivamente la differenza tra me e un dj? Difficile da dire. Ma in realtà, quello che stiamo cercando di fare sul palco con questo disco è senza precedenti, estremamente rischioso e veramente live. E la mia sensazione è che, nonostante il modo in cui può apparire, o anche suonare, nel bene e nel male si può sentire quel rischio, quella “tempesta”.
In pratica, fare musica elettronica sul palco e unirci delle chitarre dal vivo è un’idea con cui combatto da 20 anni. L’altro giorno parlavo di questo tour con Alessandro Cortini dei NIN e, quando ci si riferiva a questo enigma delle chitarre con l’elettronica, lui continuava a ripetere “olio e acqua amico mio, olio e acqua…” e ha ragione.
Io, Tarik Barri, Greg e il mio ingegnere del suono Carlos Boix abbiamo dovuto letteralmente costruire da zero gran parte della tecnologia per rendere possibile questo spettacolo sul palco. Quello che cerco è questa zona amorfa dove, ad esempio, non percepisci quando finisce la chitarra e inizia l’elettronica, perché il risultato che inseguiamo è la loro fusione in una entità singolare. Stiamo facendo cose che posso dire con certezza nessuno ha mai fatto prima e nessun altro sano di mente rischierebbe sul palco… i molteplici livelli di interconnettività tra me, le luci e gli elementi video di Tarik, l’attrezzatura chitarristica di Greg… è pazzesco. E può andare storto, e a volte succede davvero. Ma ho sempre pensato che suonare musica elettronica “dal vivo”, evitando però ogni rischio appoggiandosi su linee temporali orizzontali di riproduzione, con tutta questa sincronicità codificata nel tempo, nella migliore delle ipotesi, è noioso… e nella peggiore è semplicemente un imbroglio, quindi quello che stiamo facendo è davvero dal vivo, e lo svantaggio è che quando le cose vanno male, come è successo a Roma, la spirale può essere piuttosto rapida. Ma ancora una volta, alto rischio – alta ricompensa. Speriamo di tornare presto a Roma per rimediare a tutto ciò che è andato storto.
Ci sono molti modi di pensare al titolo Scope Neglect. Mi piace il fatto che linguisticamente sembri controverso e conflittuale. Ha una chiara connessione con il cambiamento climatico e il collasso ambientale, ma più in generale mi interessa la psicologia di come noi come esseri umani attribuiamo valore alle cose, dove applichiamo i principi e dove siamo disposti a chiudere un occhio: la Palestina per esempio!
Una delle cose che hai sempre fatto sono state le collaborazioni con altri musicisti. Il tuo penultimo album è il bellissimo Vakning realizzato con Francesco Fabris, anche lui residente in Islanda e pubblicato dall’etichetta Room40. Con Francesco, a Reykjavik, quando è nata l’idea di lavorare insieme?
Il periodo pandemico è stato un regalo per tanti artisti che conosco, ma non per me. Ho bisogno di muovermi, e gran parte della mia pratica si appoggia al movimento attraverso gli spazi, sperimentando nuovi lavori, nei vari soundcheck, cambiando luoghi e contesto, comporre nuove sequenze aspettando un aereo, tutto ciò fa sì che l’idea mi si renda esplicita. Dunque essere costretto a fermarmi e confinare la mia musica in studio non è stato d’aiuto e la maggior parte di quello che ho fatto in quel periodo onestamente non era eccezionale, l’ho buttato via… così quando il vulcano ha iniziato a fare rumori, ed era ovvio che stava per esplodere, penso che io e Francesco lo vedessimo come un modo per dirigere la nostra energia verso l’esterno, pur rimanendo bloccati a casa. C’è un aspetto performativo distinto nel fare registrazioni sul campo che anch’io amo davvero: c’è un’enorme tensione nel catturare un momento come quello, una fisicità. E questo si riflette nel materiale registrato in “Vakning” (Risveglio).
Nel 2015 ricordo alla Biennale d’Arte veneziana il Padiglione Belga che avrebbe onestamente dovuto vincere il Leone: la tua musica era parte integrante del processo visivo di “The Enclave”, opera di Richard Mosse ambientata in un Congo devastato e “magnifico”, travagliato da una guerra fratricida, una installazione con decine di schermi e la tua musica tanto drammatica quanto affascinante. Con Mosse sei poi stato in Amazzonia e da quell’esperienza è nato l’album Broken Spectre, che indagava i disastri ambientali conseguenti alla costruzione della strada transamazzonica, questo solo per citare due tuoi lavori che rivelano e denunciano la violenza che l’avidità umana sta portando avanti sul Pianeta Terra. Molti anni fa ti sei trasferito a Reykjavik: la mia esperienza di viaggio personale si è limitata a un paio di settimane in cui tutto mi sembrava perfetto, tu che hai scelto di vivere in Islanda cosa ne pensi, è realmente un paese rispettoso dell’ambiente?
Questo è una mossa di marketing molto intelligente dell’Islanda. La media dell’Unione Europea è di circa 7,8 tonnellate di emissioni di gas serra pro capite. In Islanda la media è di 40,9 tonnellate. Siamo i Taylor Swift dell’inquinamento europeo. Il fatto che qui l’energia fluisca liberamente dal terreno e che i fiumi scorrano ancora con acqua limpida e glaciale non cambia nulla nella psiche della stragrande maggioranza, che non farebbe nulla di diverso se all’improvviso avessimo bisogno di bruciare carbone. Il greenwashing è una cosa reale e l’Islanda è molto brava a farlo.
Le colonne sonore sono un aspetto importante del tuo lavoro, soundtrack scolpite nel suono e mai descrittive o didascaliche. Ti chiedo: quando, anni fa, hanno iniziato a commissionarti colonne sonore per film e serie TV, non ne sei rimasto sorpreso?
Sono sempre stato interessato alla musica da film e mi chiedevo come sarebbe stato lavorare in quel mondo. Nelle giuste circostanze, mi è piaciuto scrivere musica per quello scopo. Ma è un lavoro molto duro, e non è per tutti, e non sono nemmeno sicuro che lo sia per me. Ma parte della creazione è che esse acquisiscano immediatamente una vita propria anche quando non sono più nelle mie mani, e il modo in cui quella musica arriva alle orecchie dei registi e di altri artisti è sempre un po’ sorprendente. La musica si fa strada nel mondo, spesso nonostante me.
Immagino che Andrej Tarkovskij sia stato di grande ispirazione per la tua musica ben oltre la reinvenzione, con Daniel Bjarnason, della partitura di Solaris (2011), ma invece quando eri ancora a Melbourne quali sono stati i tuoi primi grandi amori musicali?
I miei gusti sono sempre stati diversificati e tendono ad esserci divari piuttosto ampi tra loro e il modo in cui stanno insieme. Molto di quello che ascoltavo a Melbourne certo lo ascolto ancora oggi: Dirty Three, Fleetwood Mac, Joy Division, Autechre, Swans, Emmy Lou Harris, Arvo Pärt, Gillian Welch, Rhys Chatham, Eno, Talk Talk, Kate Bush, i Cure e potrei andare avanti.