BAŞAK GÜNAK, Rewilding
Il rewilding è una forma di ripristino del territorio attuato nel rispetto della biodiversità e dei processi naturali che la determinano, riducendo sensibilmente l’impatto dell’uomo sugli ecosistemi. Rewilding è anche il titolo dell’opera più recente della sound artist di origine turca – berlinese d’adozione – Başak Günak, attiva nel campo dell’elettronica con il progetto AH! KOSMOS, ma anche nel cinema, nel teatro e nell’ambito delle installazioni sonore.
Il legame che unisce il disco a ciò che intendiamo primariamente per rewilding è sottile e passa attraverso una precisa visione della musica elettroacustica, intesa come territorio libero in cui fonti proprie e altrui, del passato e del presente, continuano ad essere lasciate libere di evolversi, fonti che la Günak si procura con la medesima attitudine degli antichissimi raccoglitori di erbe e bacche selvatiche commestibili. Questa pratica millenaria (oggi conosciuta con il nome di foraging) era svolta senza necessariamente circoscrivere la raccolta all’interno di un unico territorio.
Allo stesso modo, la sound artist “raccoglie” materiale estraendolo da tre sue composizioni che provengono da installazioni sonore precedenti e mettendolo insieme ad elementi della tradizionale turca, decostruendo tali fonti con l’ausilio di una strumentazione timbricamente obliqua (organo, clarinetto basso, Buchla 100, un broken piano e un dorofono, un peculiare cordofono creato da Halldór Úlfarsson).
“Canon Bee” è un respiro profondo vestito di pad tirati a lucido, un sottotesto delicatamente noise e un mood jazz che prosegue senza soluzione di continuità nell’obliqua opalescenza di “Rewilding”. La suggestione desertica della traccia precedente si impasta, negli allunghi lirici di “Foraging”, di reminiscenze pseudo-celtiche e umori bizantini. Fin qui il disco si fa apprezzare per la produzione eccelsa, la pulizia e la precisione, ma l’ispirazione latita, come se fosse tenuta un po’ a freno. “Wings” non fa eccezione: un uso sapiente dei tempi e dei silenzi per una traccia la cui ritmica disturbata alternata a pause meditative potrebbe essere felicemente inserita nella prossima versione cinematografica di Akira (sperando che mai venga fatta).
Il frinire delle texture noise è un leit motiv costante che attraversa l’intero disco e “Porous” ne è forse l’esempio più riuscito. A partire dalla sinistra “Inside” l’artista pare decisa a osare di più: lo pseudo cantato un po’ stucchevole di “Foraging” lascia il passo a un intrigante uso dei respiri vocali fino ad arrivare a “Swamp”, un’apnea a filo di acque paludose intravedendo le ultime stelle del mattino. Traccia narrativamente complessa, “Swamp” acquisisce un ruolo riepilogativo delle numerose atmosfere del disco che qui risultano compresse e rilette in un unico, lungo elogio del rumore ricostruito. In un ipotetico processo di distillazione si potrebbe dire che le precedenti tracce hanno offerto man mano gli elementi che in “Swamp” risultano ora mirabilmente coagulati.
Se dai primi episodi del disco si avverte l’intenzione di esprimere una maggiore intelligibilità ripiegando verso una scrittura non sempre centrata e personale, il binomio formato dalle conclusive “Swamp” e “The Holy Swarm” costituisce un’esplorazione quasi metafisica della materia sonora: è in queste ultime tracce che troviamo il volto più ispirato e contemplativo della Günak.