BARREN WOMB, Old Money / New Lows
Se leggeste il foglio promozionale dei norvegesi Barren Womb, trovereste scritto “versione più punk-garage dei Kvelertak”… ecco, per favore, non date retta a queste sparate. Il gruppo ha sicuramente un bagaglio più noise-rock, in stile Sonic Youth, e coi Kvelertak ha ben poco a che spartire. Saltate a piedi pari il primo brano, un mid-tempo nello stile dei sopra-citati, senza però l’aspetto tradizionale di una qualsiasi traccia d’apertura, che dovrebbe essere l’episodio pilota dell’album e allo stesso tempo contenere tracce di tutto il meglio che sentiremo. Proseguendo con “Mystery Meat” finiamo di fronte a lunghe accelerate di batteria punk-hardcore sopra un approccio decisamente indie-rock, ma non si decolla mai. L’alternanza tra urla e cantato melodico non serve a molto, così come le chitarre, che producono un ammasso di riff manieristi pescando un po’ dallo stoner e un po’ dal post-hardcore più lento: il groove cresce davvero troppo poco. “Slumlord Millionaire” miscela lo stoner assieme a una specie di southern-bluegrass, ma senza spingere sull’acceleratore. Non bastano le prese di posizione del cantante, che alterna un growl massiccio al parlato o alla rivisitazione di Phil Anselmo: la sua carica vocale è mitigata dalla produzione. Non c’è infatti il marciume, e nemmeno il DoItYourself che vorrebbe essere il particolare lodevole di questo Old Money / New Lows: quando la sezione ritmica pesta e le chitarre vibrano in modo violento si ha sempre l’impressione che, a pezzo registrato, qualcuno sia intervenuto per far suonare gli strumenti con poche sbavature, dosandole col contagocce. Lo stesso discorso vale per la componente rumoristica posta alla fine delle tracce, che non aumenta né diminuisce la goduria. Ci sono poi attimi di classico rock’n’roll, che a suon di “Yeah!” o “Wooh” esplodono però in clamoroso ritardo. Per fortuna, almeno “Cave Dweller” e “Drive-Thru Liquor Store” lasciano tirare un sospiro di sollievo. Troppo poco e troppo tardi, purtroppo.
Pare che i Barren Womb abbiano preso i Ken Mode (altra band citata nella presentazione) e li abbiano levigati e lucidati, così da restituirceli con un’apparenza standard che di loro conserva giusto il ricordo, per una resa senza infamia e senza lode. Basta un brano qualunque dei Kvelertak o, appunto, dei Ken Mode per dimenticarsi di quest’album, che forse avrebbe dovuto evolversi secondo lo spirito sperimentale della conclusiva “Russian Handerchief”: una svolta degna di nota sulle orme dei primi Motorpsycho, formata da tonalità atipiche e più teatrali. Buona conclusione, ma non abbastanza per salvare l’intero prodotto.