BARK PSYCHOSIS, Codename: Dustsucker
Sei secondi di suoni infantili, spensierati, e poi subito si affonda in un placido vortice che avvinghia alle caviglie e porta giù, dove siamo abituati a stare, e dove, alla fine, lo ammettiamo senza troppe remore, ci piace pure restare, a volte. Perché noi apparteniamo a quella minoranza (?) che nella musica non cerca sempre e in primis divertimento o evasione, ma spesso in realtà uno specchio (“Vedi? Non sono meglio di uno specchio?” si dice in Lungo I Bordi dei Massimo Volume, sui quali prima o poi dovremo scrivere un pezzo): una specie di psicoterapia domestica e portatile, o comunque qualcosa che rifletta la deriva a cui il solo fatto di esistere, in questi tempi frantumati, conduce, inevitabilmente.
Troppa filosofia per quattro accordi sputati e sintomi di depressione? Può essere, ma nell’arte, come nella vita, la suggestione è tutto: e allora, da quando viene detto a quando viene letto, un pensiero cambia forma, svanisce, perché parlare di musica, di certa musica, in un qualche modo, è sempre impossibile, l’unica strada possibile è raccontarla. “From What Is Said To When It’s Read”, la prima traccia di Codename: Dustsucker, il secondo album – opportunamente ristampato da Fire Records – dei Bark Psychosis di Graham Sutton da Londra, già nei primi quindici secondi mette le cose in chiaro(scuro): un piano melodico inclinato e languido, una batteria a mettere le virgole su un discorso pieno di nostalgia, di rimpianti, una lunga sequenza avvolta da un tepore nebuloso, la voce che scalda e parla di cose lontane e per questo vicine. Tra ciò che viene detto e il momento in cui viene letto passano attimi o secoli, ed è la distanza inesorabile e incolmabile che ci allontana e ci divora. Codename: Dustsucker è un disco da sentire in cuffia in metropolitana o in tram al mattina presto, gli occhi assonati, la bocca impastata, una montagna da scalare fatta di incombenze di cui non ci potrebbe fottere di meno, tempo prestato a qualcun altro per avere in cambio i soldi per poter vivere. Le chitarre di “From What Is Said To When It’s Read” sono semplicemente magistrali, shoegaze per chi non ascolta lo shoegaze, muri di suono potenti e delicatissimi, una vaghezza che schianta ed eleva, e già questi minuti al cielo basterebbero per giustificare l’ascolto di un gruppo che con il primo album, Hex, ha scritto una pietra miliare del post-rock inglese, riprendendo le inafferrabili sinfonie in miniatura dei Talk Talk del crepuscolo. È che in una canzone come questa è tutto esattamente dove deve essere, e in un modo che suona perfettamente familiare: enigmatico, allusivo eppure come sussurrato all’orecchio, come una verità dimenticata eppure, ripensandoci per un attimo, nota da sempre. Un breve manuale di psicoacustica in poco più di cinque minuti, una canzone da ascoltare assieme a chi sa, senza fare nessun commento, che non c’è nulla da dire, basta tacere e sprofondare.
Altre tracce suonano meno intense e un poco più di maniera: “The Black Meat”, con il suo incedere pop e una tromba che non colpisce il bersaglio perché cerca una luce non naturale per i Bark Psychosis. Anche “400 Winters” (tra Stereolab e certo dimenticabile pop, ad esempio i Lush, oppure i Seely, su TooPure) resta un po’ a metà del guado: grande capacità nell’arrangiare, ma il cuore del pezzo è anemico, manca il sangue che pulsi e inchiodi all’ascolto, come avviene invece con “Miss Abuse”, catatonica, tra le brume dei Flying Saucer Attack, il cinema appannato di Movietone e Crescent, stanze colme di ricordi, di riverberi, pause di sospensione perfetta, poi un synth magnifico e maledetto che a ogni replica non smette di ossessionare e un crescendo sommesso e orizzontale, come un suono di barche che, invece di avvicinarsi a riva, si perdono in mare aperto: tutto semplicemente magnifico. Sounds your eyes can follow, come titolavano i conterranei Moonshake mille anni fa, e lo stesso mood di muta rivolta interiore che abitava i pezzi di una grandissima e misconosciuta band come gli scozzesi Long Fin Killie (assolutamente da recuperare, sempre su TooPure). Con “Dr. Innocuous-Ketamoid” siamo esattamente dalle parti di Third Eye Foundation, un minuto di astrazioni e ruggine, che preludono a un altro capolavoro arreso: “Burning The City”, affilata e fragilissima, piena di spazio, come la traccia più lunga, “INQB8TR”, in realtà non così pregnante (e lo stesso vale per “Shapeshifting”, cantilenante e ovviabile). Si chiude invece in piena gloria con “Rose”, esattamente dalle parti di Spirit Of Eden della band di Mark Hollis: si tratta di uno strumentale che non ha paura di mostrare le rughe di un suono che cerca e trova nella polvere e negli interstizi la propria luce, e che a un loop sommerso di corde arcane sovrappone l’estasi di un organo che si eleva in alto, dove i nostri occhi finalmente possono puntare, dopo tanto schivare gli altri sguardi per timore di ferirsi, dopo tanto indagare le linee del pavimento, le radici delle piante che restano comunque avvinte a terra, vinte dalla gravità, come le nostre ragioni, che scompaiono davanti a questi suoni che semplicemente ci ricordano che siamo soli, soli verso quella luce, e non può essere altrimenti.