BADAWI, A Tale Of Two Cities e The Book Of Jinn
“A Tale of Two Cities” è soprattutto un romanzo di Charles Dickens, le cui trasposizioni (tra cinema, tv e teatro) raggiungono la doppia cifra, ma è anche un episodio dell’epocale serie televisiva Lost (il primo della terza stagione): da quest’anno, poi, è pure il titolo di una raccolta delle primissime produzioni di Badawi, il musicista e artista elettronico originario di Gerusalemme. Proprio la capitale israeliana è una delle due città a cui si riferisce, l’altra invece è New York, dove il producer si reca già in tenerissima età.
Nella Grande Mela Badawi (al secolo Raz Mesinai) scopre i ritmi e i suoni delle diaspore africana e caraibica, dal dub all’hip-hop, e le loro tecniche. Arriva così il momento dell’esordio: Beduin Sound Clash esce nel 1996 ed è un gioiellino di digi-dub mediorientale troppo spesso dimenticato. Rimasterizzato nel 2021, il debutto, tra percussioni local, atmosfere desertiche e sprazzi di sensualità dopata, anticipava in un solo colpo tanto la bass-music politica di Kode9 quanto la techno sciamanica della tunisina Deena Abdelwaheed (di cui si attende, a breve, il sophomore-album).
Il merito principale di A Tale Of Two Cities è dunque quello di mostrarci il percorso, costellato di urgenza e curiosità (ma anche di qualche ingenuità, come “Dabka In The Dancehall”), che ha portato Badawi verso l’inizio di una carriera ricca e multiforme (è uno dei pochi, tra l’altro, che può vantare un remix firmato da Andy Stott) che continua ancora oggi.
Arriviamo così al piatto forte del suo 2023, cioè il nuovo The Book Of Jinn, uscito a maggio per l’italiana Penny Records. Undici tracce costruite sul lavoro strumentale di storici collaboratori (il percussionista Juma Sultan, il bassista Shazad Ismaily e la cantante Chandenie), poi rielaborate dallo stesso Badawi in un tenebroso flusso ambient e, ovviamente, dub. Ma è, più che in passato, un dub inquieto, racconto di un mondo sì connesso, però sempre ostile, pronto allo scontro, come esplicitato dai ritmi incalzanti e minacciosi di “Ruqyah Gaza”. Altrove, le originarie strutture tra jazz e tradizione araba sono scomposte e destrutturate in esercizi di minimalismo riottoso (“Desert Eagle” e “Utukku”). Anche i brani più avvolgenti, come il dittico composto da “Zakat” e “The Bride”, nascondono uno sguardo disincantato che è forse la cifra stilistica più profonda e caratteristica di questo Badawi maturo: un artista e un essere umano che, in quasi quarant’anni di attività, ha scavalcato e abbattuto confini, mentre fondamentalmente il resto del mondo continuava ad alzare muri e a crogiolarsi nelle incomprensioni.