BAD BARE BLACK BONES, OWT

Sono ferini e alieni i suoni coi quali ci accolgono i Bad Bare Black Bones aka Rosa Lavita e Samuele Innocenti, al loro secondo disco. Corde rintoccate e versi gorgoglianti che ben si ricollegano al loro esordio, incuriosendoci, poi un blues, basso e rantolato, come un cane in una cantina che cerca la luna. Al solito gli strumenti non smorzano questa sensazione di alterità, anzi la amplificano in modo brutale, greve e contorto. Pianti laceranti che fanno quasi distogliere lo sguardo da una chitarra che lascia immaginare fumo, cocci e bottiglie e sudore innocente, travaglio ed esorcismo per una trasformazione che non avverrà mai.

Questo, alla fin fine, è blues, è come se lo scheletro della musica e quello del corpo si palesassero insieme, dopo l’apertura di una carcassa nella quale c’è ancora un cuore battente e ritmico, e la voce di chi ha perso tutto oppure non ha nulla da perdere. La voce e il suono dei pazzi direbbe qualcuno: non so, non io, non mi esporrei mai mettendo in pericolo Lavita degli Innocenti. Due centri pieni su due per i Bad Bare Black Bones, tre centri pieni anche per Anthropologists Inc. Ah, ma che musica fanno alla fine? Loro citano le ondate soniche dei Khanate, il sound dei Sutcliffe Jugend di Blue Rabbit e gli orrori di Hidetaka Miyazaki. Forse, ascoltateveli e fatevi un idea, soffrendo con loro.