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AUTECHRE, Sign

Annunciato con esiguo anticipo e accompagnato come sempre da poca promozione (niente dirigibili nei cieli di Londra alla Aphex Twin, per dire), arriva il nuovo album degli Autechre, il tredicesimo se non contiamo le numerose registrazioni dal vivo ed Elseq, materiale pubblicato solo in formato digitale, e le mostruose NTS Sessions. Una settimana prima dell’uscita, per la precisione il giorno 8 ottobre alle 21, orario di Greenwich, la Warp ha mandato in streaming sul proprio sito l’anteprima di Sign: fra appassionati del duo di Rochdale abbiamo preso a seguirne gli sviluppi quasi come tifosi una partita di pallone, commentando le highlight sui social, esultando per i passaggi riusciti e viceversa imprecando per le occasioni sprecate. Possiamo dire da subito che gli Autechre hanno tirato fuori un lavoro che in pochi si aspettavano: per rimanere dentro la metafora calcistica, pensavamo di assistere a un tiki-taka alla Guardiola e ci siamo trovati di fronte a una manovra ariosa alla Del Bosque. Dopo le NTS Sessions (nelle quali, va detto, succede di tutto) era legittimo pensare che si alzasse l’asticella, o quanto meno aspettarsi ancora geometrie impossibili; invece Brown e Booth sembrano aver in parte abdicato ai dismorfismi caratteristici dei loro lavori più recenti per dare corso a un disco “più suonato”, per così dire, in cui sembra di orecchiare addirittura qualcosa di analogico e che in più di qualche punto appare come un ritorno su territori già battuti a fine anni Novanta.

La traccia d’apertura mantiene un certo legame con il passato prossimo: da un’iniziale giustapposizione di rumori in apparenza sconnessi si sviluppano chiazze di suono su una griglia ritmica appena abbozzata. Con la seconda cominciano le sorprese: gli Æ, da sempre dipinti come avulsi da qualsiasi legame con altre realtà musicali, sembrano addirittura essersi ascoltati attorno, aver captato qualcosa da ambiti affini. La trance di “F7” non può non ricordare il puntinismo di Lorenzo Senni come pure, in alcuni passaggi, la calligrafia di Caterina Barbieri, tutta gente che sicuramente si sarà studiata per bene i dischi degli inglesi: potrebbe essere sensato parlare quindi di “cavallo di ritorno” nel descrivere questa sensazione di “già sentito altrove” che qua e là si insinua durante l’ascolto del disco. Traccia 3: se Čajkovskij vivesse quest’epoca, il secondo movimento dello Schiaccianoci suonerebbe più o meno come “si00”, un deflusso spontaneo di suoni repentini su una ritmica totalmente fuori di sesto, che si estende e si contrae come un elastico (come le nostre sinapsi con essa). Quindi “esc desc”, con il suo maestoso intersecarsi armonico, e “Au 14”, un ritorno alle sonorità altezza LP5: nervosa e anfetaminica, lascia percepire una sottile vena melodica strozzata però da una amabile logorrea. La (pseudo) new age di “Metaz form8” prende quota moltissimo con gli ascolti: se di primo acchito rassomiglia pericolosamente al Sakamoto più pacchiano, alla fine della fiera risulta uno degli episodi più riusciti del disco. Lo stereotipo della freddezza, che da sempre è legato alla musica degli Autechre, quella mancanza di empatia con il genere umano che viene vissuta alternativamente come pregio o difetto, in questo frangente viene sconfessato con decisione dal tepore emanato dalla traccia 7 come pure dai toni “romantici” della traccia 8: sembra che nei due, pure abituati a quanto sembra a comporre in condizione di distanziamento fisico reciproco, si sia fatto largo un bisogno importante di contatto umano, dovuto, chissà, all’attuale situazione sociosanitaria. “Th red a” richiede una certa capacità d’attenzione, caso piuttosto isolato in un album che suona particolarmente immediato, tanto da far parlare una volta tanto – e ancora con eccessiva enfasi – di svolta pop, se non addirittura melodica: è una rilettura del minimalismo storico che in definitiva risulta il punto di stanca del lavoro. Minimalista anche “psin AM”, ma con esiti ben più felici, complice l’impiego strategico della cassa, dritta ma morbida come le guance di un pupetto. “R cazt”, brano finale, è forse quello che preferisco, una struggente stesa di pad, fra i lembi della quale crogiolarsi diventa un piacere assoluto.

In definitiva Sign, pur senza pretesa di essere una pietra miliare nel percorso artistico degli Autechre, mostra la capacità di guardare al passato senza sfociare nell’autoplagio e nello stesso tempo di aggiungere nuovi lemmi a un lessico già nutrito.