ATTILIO NOVELLINO
Come scrivo nella recensione, quello di Attilio è un nome che occorre segnarsi. Lo scenario elettronico e ambient italiano è molto interessante, oltre che parecchio prolifico: lui va a occupare una posizione riconoscibile e piuttosto forte, anche se prima di esagerare con i complimenti occorrerà attendere il seguito di questo esordio a suo nome (era già uscito con un album dietro al moniker Un Vortice Di Bassa Pressione). Sul suo sito definisce giustamente la propria musica “dronegaze”, quindi la sfida ora è farsi notare in campo internazionale, dove ormai da anni “drone” e “gaze” sono termini che appaiono molto (troppo) di frequente. In quest’intervista ho cercato anzitutto di “presentarlo”, lui è stato molto esauriente e disponibile, anche di fronte a domande dalle quali altri avrebbero cercato di liberarsi senza dire troppo di sé.
Come hai iniziato a suonare? Sei partito da sintetizzatori e campionatori (o laptop) oppure da qualcosa di più tradizionale (chitarra, basso…)?
Attilio Novellino: Il primo strumento sul quale ho messo le mani è stata una chitarra acustica, ho iniziato a suonarla seguendo i suggerimenti che un amico si è offerto di darmi, mi ha insegnato i rudimenti e gli accordi più semplici. Ben presto mi sono reso conto che quello strumento, da solo, non mi avrebbe mai offerto le possibilità espressive che cercavo, così ho comprato una chitarra elettrica e una serie di pedali e ho cominciato a sperimentare con i suoni. Sono andato avanti senza seguire una direzione precisa. Ma solo quando ho collegato tutto a un computer ho capito che quella era la dimensione che cercavo, per la prima volta ho percepito uno strumento come fonte di possibilità e non come limite. La gestione del suono attraverso il software, oltre a fornire molteplici soluzioni, permette di percepire la musica secondo una prospettiva del tutto particolare, differente rispetto a quella che si incontra quando si suona uno strumento e ci si lascia guidare anche da un piacere tattile, è come se si avesse la possibilità di osservare il suono dall’interno, rimanendo allo stesso tempo a una distanza tale da poterlo controllare col distacco necessario. Questo facilita sicuramente la traduzione della mia immaginazione e della mia sensibilità in suono.
Perché ora esci con lavori a tuo nome? Cosa è cambiato?
Avendo scelto di presentare il mio lavoro ad un pubblico internazionale, tramite un’etichetta austriaca, non mi sembrava il caso di continuare ad utilizzare un moniker come “Un Vortice Di Bassa Pressione”, difficilmente comprensibile da chi ha una scarsa confidenza con la lingua italiana. Inoltre, da tempo non sentivo più l’esigenza di avere una sorta di pseudonimo dietro al quale camuffare la mia attività artistica, era diventato un filtro inutile e lo portavo con me solo per ragioni affettive. Probabilmente nel tempo sono diventato meno timido. La spinta di Alex è stata decisiva per convincermi ad abbandonarlo.
Che cosa rappresenta la copertina di Through Glass? La tua musica ha quei colori secondo te?
Credo che le foto utilizzate per l’artwork di Through Glass esprimano molto bene il “concept” del lavoro e l’immaginario legato al disco. In quegli scatti mi sembra di vedere le figure e i disegni interni alle fibre di un materiale, ora così a fuoco da lasciar trasparire gli spazi vuoti nella materia, ora dai contorni sfumati e confusi. Immagini astratte come queste, in realtà, non hanno un significato univoco e sollecitano costantemente la tendenza innata dell’uomo ad attribuire significati a forme casuali e a ricondurre disegni imprecisati dentro figure familiari. Ognuno può trovare significati diversi secondo la propria percezione. L’artwork del disco è stato realizzato da Veronica Vallini, bravissima fotografa e artista che opera sotto il moniker di Psykovero, le sue foto mi sono sembrate idonee a fornire una veste grafica al lavoro anche da un punto di vista cromatico, nonostante io tenda ad associare tonalità differenti ad ogni brano.
In dischi come Through Glass si perde un po’ la percezione del tempo: strati continui di suono/rumore che ti portano via, in viaggio. Sotto questi strati anche delle melodie, ma è sempre difficile capire se si prova una senso di benessere oppure inquietudine. Di che umore eri mentre mettevi insieme le tracce e che stati d’animo associ all’album?
Ho realizzato questo disco in un arco di tempo abbastanza lungo, complessivamente è trascorso circa un anno e mezzo. In un periodo così esteso sono accadute diverse cose nella mia vita, ho vissuto cambiamenti importanti e attraversato stati d’animo differenti. Tutto questo ha influenzato sicuramente la musica di Through Glass. Alcuni brani sono legati ad eventi o sensazioni particolari ed ho utilizzato anche materiali registrati parecchi anni fa, che riflettono indubbiamente le emozioni del periodo.
Mi è capitato molto spesso nella vita di provare una particolare sensazione, in cui benessere e inquietudine non fossero distinguibili nettamente, anzi direi che è una condizione percettiva che mi è molto familiare. L’album fotografa e amplifica questo intreccio emozionale e lo traspone in un quadro sonoro, cercando di tracciare un percorso che possa favorire uno stato psichico di sospensione. Uno degli obiettivi della mia musica, infatti, è quello di costruire una dimensione di “caos psicoacustico” nella quale le diverse percezioni, avvolte dalla nebbia di una gioia malinconica, non siano nettamente distinguibili e sia facile perdersi.
Tim Hecker, Christian Fennesz: li consideri tue influenze? O siete stati influenzati dalle stesse musiche? Nei loro casi si trovano anche parentele con lo shoegaze, nel tuo?
Apprezzo moltissimo questi due artisti, li considero autori di dischi fra i più importanti degli ultimi anni e probabilmente entrambi hanno influenzato il mio modo di vedere la musica. Anche se nel periodo in cui è maturata la mia sensibilità musicale, quando ero maggiormente “esposto”, sono passato attraverso altri ascolti che hanno connotato il mio gusto forse in misura ancora maggiore. Lo shoegaze rientra sicuramente fra le mie influenze, in particolare gruppi come Slowdive e My Bloody Valentine, ma non so se ci sia un vero legame o una parentela diretta con la mia musica, sicuramente vedo elementi di contatto nell’uso di distorsioni, riverbero,voci sognanti e in alcune atmosfere eteree e dilatate, notevoli differenze nella struttura dei brani oltre che nell’elemento ritmico. Credo di condividere questa passione con Christian Fennesz, invece non conosco gli ascolti del canadese.
Dietro la tua attuale etichetta Valeot Records c’è Alexandr Vatagin, che fa (o faceva) parte della formazione dal vivo dei port-royal. I port-royal sono la prima uscita della Valeot. Pensi ci sia qualche collegamento tra te e loro? Come sei entrato in contatto con Alexandr?
Alex è il mio collegamento diretto con la band, poiché continua a fare parte stabilmente del gruppo genovese nell’attività live e credo fornisca il suo apporto anche in studio. La presenza nel gruppo del mio omonimo Attilio, che non ho ancora avuto il piacere di incontrare di persona, potrebbe essere considerato un altro punto di contatto, dal momento che il nostro non è un nome così diffuso… A parte gli scherzi, mi piace molto la musica e l’immaginario legato ai port-royal: nei loro brani atmosfere evocative, profonde e sognanti convivono con un impatto ritmico trascinante che sfiora spesso la dance. Sono riusciti a creare uno stile tutt’altro che banale, immediatamente riconoscibile e capace di essere apprezzato anche da chi non ha piena confidenza con la musica sperimentale. Afraid To Dance è un disco che mi ha davvero entusiasmato, lo ascolto sempre con grandissimo piacere.
Seguivo Valeot da tempo perché mi avevano colpito molto la qualità delle uscite, lo stile e l’estetica dell’etichetta, così ho deciso di inviare un mio demo ad Alex. Quando mi ha risposto ho avuto immediatamente l’impressione di aver trovato una gran bella persona e il posto giusto per la mia musica. Non mi sbagliavo.
Nel campo della musica sperimentale il Sud Italia attende solo di essere ascoltato: Valerio Cosi, Fabio Orsi e altri pugliesi o certe realtà napoletane che formano una piccola scena (A Spirale, Weltraum…). Ma il contesto locale permette di suonare/esibirsi con facilità?
Le origini meridionali accomunano molti musicisti che si muovono sul territorio della musica sperimentale in Italia, hai ragione, ma molti di loro decidono di trasferirsi stabilmente in altre città, nel Nord Italia o anche all’estero. Questo non è un caso.
È sempre molto difficile infatti, da queste parti, trovare spazi nei quali siano graditi linguaggi sperimentali, diversi da quelli tradizionalmente legati al pop o al rock nelle sue diverse declinazioni, all’elettronica da ballo, al jazz o all’accademia. Al di là di qualche festival, che si svolge generalmente con cadenza annuale (e di ottimo livello, a dire il vero), non vedo una realtà in grado di capire e apprezzare la musica sperimentale che il “territorio” produce, né tantomeno interessata a conoscerla, mi riferisco tanto agli “operatori cultrurali” quanto al pubblico.
Se in regioni come Puglia, Sicilia e Campania esistono locali con una programmazione “aperta”, capace di a dare spazio, talvolta, a voci legate alla sperimentazione elettronica, la Calabria si dimostra quasi totalmente impermeabile a questo tipo di linguaggio.
E con i veneti elettronici Coniglio & Mazzon com’è nata la collaborazione? Le vostre musiche hanno diversi punti di contatto… Non conoscevo invece Alessio Ballerini.
Subito dopo la pubblicazione del mio primo lavoro, Anonymous Said, ho contattato Enrico Coniglio perché apprezzavo i suoi lavori e la sua visione della musica. Ho trovato una persona aperta al dialogo, piena di idee e di entusiasmo, che mi ha dato subito l’impressione di avere molto a cuore lo sviluppo di una certa “scena“ in Italia. Fra noi è nato un bel rapporto. Insieme abbiamo deciso di produrre “Underwater Noises”, una compilation che raccoglie brani di artisti italiani attivi nel campo della musica elettronica/ambient e accomunati da una certa affinità. Tra i partecipanti c’erano anche Ennio Mazzon e Alessio Ballerini, due sound-artists impegnati nella ricerca sonora in ambito elettro-acustico, che si erano già affacciati sulle scene con ottimi album e avevano legato il proprio nome a diversi progetti (Ripples, Postodellefragole). Quell’esperienza è stato il punto da cui partire per una serie di iniziative e collaborazioni che abbiamo portato avanti nel tempo e che ancora contribuiscono ad animare e rendere vivo il nostro rapporto. Ho voluto ospitarli nel mio disco per celebrare ed immortalare un momento di condivisione che mi sembrava importante.
Porterai dal vivo Through Glass? Hai un’idea sulla controparte visiva da offrire durante il concerto?
Ho già realizzato un live set basato in parte sul materiale di Through Glass a fine aprile a Vienna, un’altra data è in programma per l’estate a Berlino. Sto cercando di fissare qualche appuntamento anche in Italia, ma ancora non c’è nulla di sicuro.
Non credo che i miei set avranno una controparte visiva diversa dalla mia figura intenta a lavorare sul laptop, sampler, controllers e pedali, almeno nell’immediato, dal momento che non voglio abbinare alla mia musica materiale video che non sia stato pensato espressamente per la stessa e, attualmente, non collaboro in modo stabile con nessun video-artist. Affinché i visuals possano arricchire la musica che viene presentata live e non inducano il pubblico, spesso più attento agli impulsi visivi che a quelli uditivi, a distrarsi dal suono, è necessario che ci sia una notevole coesione tra questi e la musica e una buona sintonia tra chi cura un aspetto e chi l’altro. Inoltre, figure associate in modo casuale alla musica possono inibire l’immaginazione dei partecipanti, l’ultima cosa che vorrei capitasse al pubblico che mi ascolta.
Hai appena curato una compilation industriale (nel vero senso della parola) per l’etichetta portoghese Crónica. Cogli l’occasione per presentarci il progetto e dirci cosa t’ha coinvolto?
Loud Listening è un lavoro che ho curato insieme a Enrico Coniglio e Alessio Ballerini, che ha coinvolto anche Giuseppe Cordaro, nell’ambito di AIPS (Archivio Italiano Paesaggi Sonori), collettivo di soundscapers italiani nato con l’intento di promuovere la cultura del paesaggio sonoro e le pratiche artistiche connesse al concetto di “soundscape composition”. Contiene registrazioni ambientali realizzate in impianti industriali situati nelle zone di Venezia, Ancona, Reggio Emilia e Catanzaro. Abbiamo voluto mettere in primo piano il lavoro industriale, quello che occupa ogni giorno moltissimi operai, fornendo a tutti gli ascoltatori la possibilità di collocare le proprie orecchie fra gli strumenti delle fabbriche, a contatto diretto con materiali e macchinari, condurle nel cuore della produzione industriale. Con la duplice finalità di riflettere sull’importanza dell’industria e degli operai, in un periodo di crisi economica come quello che attraversa il nostro Paese, e di fornire una sorta di mappa sonora del lavoro, senza trascurare l’indubbio fascino proprio delle sinfonie che certi suoni meccanici, tutt’altro che sgradevoli, sanno produrre. I nostri suoni sono stati poi trattati da dieci artisti che operano nel campo dell’elettronica sperimentale, ognuno dei quali ha realizzato una personale composizione mettendo mano al nostro materiale sonoro secondo la propria sensibilità.
L’esperienza è stata molto interessante tanto dal punto di vista della valorizzazione di un particolare tipo di paesaggio sonoro quanto da quello artistico-musicale. Siamo riusciti ad affidare i nostri suoni a figure di primo piano nel panorama dell’elettronica sperimentale internazionale, fra cui Lawrence English, Simon Whetham, Mathias Delplanque, Yu Miyashita e Campbell Kneale, artista neozelandese che stimo moltissimo ed ho conosciuto grazie ad alcuni splendidi lavori pubblicati sotto il nome di Birchville Cat Motel. In particolare il suo Our Love Will Destroy The World, espressione che ora utilizza come moniker, è uno dei dischi noise che mi ha influenzato maggiormente.
Loud Listening rappresenta “un’opera noise” moderna e tutt’altro che scontata, a mio avviso, ne sono molto soddisfatto.