ASTRÏD & RACHEL GRIMES, Through The Sparkle
Handwriting, Music For Egon Schiele e soprattutto The Sea And The Bells erano dischi nitidi, struggenti, forti e preziosi. Con le loro minime sinfonie rock i Rachel’s nei tardi ’90 ottennero un buon successo dalle nostre parti. Oggi li definiremmo modern classical: le loro erano semplici e toccanti melodie pianistiche su cui fiorivano splendidi arrangiamenti d’archi, e a dare manforte al tutto un insospettabile Bob Weston, per una delle band più memorabili di quello che chiamavamo post-rock.
Ora Rachel Grimes si ripresenta col quartetto di Nantes Astrïd e riparte esattamente da dove aveva lasciato. A quell’epoca, per dirla col cantautore che è superfluo nominare, ci innamoravamo di tutto, correvamo dietro ai cani. Ora sono tempi desolati, è un’epoca di frantumi in frantumi e l’amore è una bugia sciocca. E anche per questo disco la magia non si ripete. Quello che allora meravigliava ora risulta nel migliore dei casi innocuo. L’architettura delle composizioni è la stessa di un tempo, fatta salva una più smaccata propensione pop, laddove nei Rachel’s quello che colpiva al cuore erano l’asciuttezza e l’austerità. Chitarre dilatate e sparse, pianoforti minimali, campi lunghi, incedere rock, pause suggestive, percussioni filmiche: tranne che per gli archi, qui usati con molta più parsimonia, la ricetta è la stessa, ma il gusto è diverso, adesso. Con la quinta traccia le cose improvvisamente prendono una piega inaspettata: “Hollis”, dedica al leggendario Mark, voce ed anima fragile dei Talk Talk, propone una bella sincope jazz a reggere una lieve impalcatura di piano, con contrappunti di fiati, tastiere e percussioni, in una crasi perfetta tra estasi immobile à la Terry Riley e gli inni al cielo di Laughing Stock. Con la voce di David Sylvian (quella di Hollis lo sappiamo già, non la sentiremo più), questo pezzo sarebbe stato un capolavoro assoluto. Il miracolo però non si ripete: su “M1”, ad esempio, una chitarra apre un sipario messicano, poi si torna su lidi più classicamente rachelsiani, ma senza la scintilla di un tempo. Che, almeno in parte, riappare ne “La Petit Maison”, l’ultima traccia, grazie agli archi che con le loro svisate portano dritti dritti al clima ottocentesco di “The Sea And The Bells “. Ma quel disco era una vita fa, noi eravamo innamorati e i Rachel’s erano nel pieno della loro scintilla. Poi le cose cambiano. Disco proustiano, adatto alla fine dell’estate ma prescindibile, a parte l’ottima quinta traccia.