ASTRAL BREW, Red Soil

Astral Brew si autodefinisce un trio jazz rock. Vengono da Vittorio Veneto e in formazione annoverano ex membri di Superlucertulas, Orfanado e A Flower Kollapsed. A dire il vero, e credo che ogni recensione onesta debba provare a farlo, fermo restando che poi i gusti sono inevitabilmente soggettivi, io di jazz rock in questo disco non ho sentito nulla. Nemmeno del free jazz che viene citato nella cartella stampa. A meno che non basti la presenza di un sassofono su costruzioni che tutto sommato sono sempre rock per essere definiti jazz-rock, ma credo che questo sia un equivoco. Ad ogni modo è il suolo rosso di Marte l’habitat per queste sei tracce animate da una cocciuta vena escapista seppure in qualche modo romantica. All’uggia di certo hardcore sotto benzodiazepine, nelle architetture ritmiche e nella foga trattenuta, la band aggiunge un sassofono alto che non convince, a cominciare dal suono, e questo rimarrà un problema lungo tutte le sei tracce. “Remote Horizons” promette fughe che non mantiene, suona un po’ come un incrocio tra dei Gong senza funghi e i Sorts, grande e misconosciuta band su Slowdime.  Centra il bersaglio invece la coda sincopata e aerea di “Next” con un bel groove minimale: a conti fatti si rivela il pezzo più interessante, dove i tre mollano le redini e aprono finalmente panorami. “Space Solitude” ha un inizio che potrebbe ricordare certe cose degli Anatrofobia (uno dei segreti meglio custoditi di tutto l’underground italiano, autori di vari dischi per Wallace e presto nuovamente in pista) virati post-rock: niente male anche se poi nel finale si avvita un po’. “Culture” si regge su un bel basso ossuto e post-punk, poi si incarta in una costruzione tra space rock e prog non così avvincente. Anche la batteria alle mie orecchie qui suona rivedibile: poco fluida, a volte legnosa. “Explicit Gesture” è un mid tempo indeciso sul da farsi, tra aperture vagabonde del sax e un discorso che pare non avere parole significative da dire. “Orbit” viaggia, come da titolo, lontano, e arricchisce la paletta timbrica con tastiere dense di languori cosmici, tra Van Der Graaf Generator e corrieri  tedeschi, senza però mai decollare veramente. In generale i 35 minuti scarsi del disco mostrano un buon potenziale, che però resta inespresso e fa tornare in mente i Satan Is My Brother. Il trio ha buone intuizioni ed è animato da una bella passione esplorativa, questo si avverte; per il prossimo lavoro si auspicano allora una maggior focalizzazione delle idee, meno timore nel lasciare andare il cavallo senza briglie e nessuna paura nel lasciare la stanza aperta ai demoni (Angels & Demons At Play, di Sun Ra, remember?), che a questo giro hanno latitato un po’.