Assalti Frontali: secondo la moda di oggi i rapper parlano di orologi e non del tempo in cui viviamo
Il 15 luglio è uscito il decimo album degli Assalti Frontali, intitolato Courage: un lavoro in cui l’elemento introspettivo prevale maggiormente e le riflessioni sul tempo, sulla condizione umana e sulla possibilità di risollevare le proprie sorti diventano temi centrali. Un tema sonoro in cui l’Hip Hop si unisce al Jazz a conferma, se mai ce ne fosse ancora bisogno, quanto gli Assalti Frontali siano sempre stati in totale connessione con il presente e che la loro lettura, attenta e puntuale, aiuti ad interpretare meglio il futuro, o quantomeno ad immaginarlo con più lucidità.
Ho fatto due chiacchiere con Militant A, a riprova del fatto che abbiamo ancora bisogno di persone che ci guidino nel cammino.
È passato qualche anno dall’ultimo disco. Il mondo è cambiato secondo me molto velocemente. Che mondo hanno trovato gli Assalti Frontali?
Militant A: Sono stati questi cambiamenti a trovare noi, chiaramente pandemia, gestione della pandemia, guerra, solitudine, isolamento, quindi poi i traumi e l’uscire dai traumi. A uscire dai traumi noi ci abbiamo provato col rap, la nostra arma, nel modo più pulito, generoso, sincero possibile, raccontando tutto quello che sentiamo. Courage, che è il titolo del disco, è qualcosa che ci viene dalle generazioni del passato e che noi vogliamo tramandare a quelle future. Noi vogliamo trasmettere il coraggio di sognare il futuro a una generazione che sembra più non averlo.
A proposito di questo: gli Assalti Frontali hanno sempre raccontato il mondo, ma il primo pezzo in realtà è personale e a un certo punto si dice “questo brano è per me”.
Sì. Delle volte si canta per gli altri, per convincere qualcuno. Nei momenti difficili però ho detto “voglio scrivere una canzone per me, per caricarmi, per darmi coraggio”. Mi è uscita questa frase forte e l’ho presa per il ritornello.
Il termine “courage” è ripetuto in più parti dell’album. In questo disco “courage” non ha a che vedere col combattere o con la rivoluzione, mi sembra una pacca sulla spalla, dire che si è lottato tanto e che ora è il tempo di farsi carico di chi non ce la fa. Non una resa, ma un fare da scudo agli altri.
Io ho cercato di raccontare come ci sentivamo. Nel farlo in modo sincero, devo ammettere che è difficile per tutti. Non ci sono grandi movimenti collettivi in questo momento. È il nostro modo per dire agli altri che non sono soli. Non ci facciamo attanagliare dalle paure. Un professore di antropologia ci ha detto che siamo diventatati “antagonisti di cura”, cura per i quartieri, per le scuole, per l’ambiente.
Abbiamo parlato di giovani. Che cosa vedi musicalmente in Italia? Cosa ci sarà nel futuro?
C’è una bella esplosione. Quando abbiamo cominciato noi, erano in pochi a fare rap. Oggi sono in milioni a fare rap. Certo, i contenuti non sono quelli che portavamo noi all’inizio (gli scappa da ridere, ndr). Io dico che bisognerebbe raccontare ciò che si è veramente, essere autentici, non parlare solo di rapine, spaccio e donne. È un lavoro lungo da fare. A volte va detto però che ci sono dei ragazzi che ci sorprendono.
Nel disco collaborate con due jazzisti di una certa importanza.
Daniele Tittarelli e Pietro Lussu sono due geni del sax e del pianoforte. Due jazzisti che stanno sempre in giro, sulla strada. Ci siamo conosciuti e ha prevalso lo spirito hip hop di suonare insieme, per il gusto di farlo. Cose belle, preziose, che fanno molto piacere.
A parte il primo, c’è un altro brano del disco con cui avete un legame più forte?
Sono tutti figli. Vuoi un sacco bene a tutti. Sai quello che c’è dietro. Forse “Brest”, l’ultima, perché non sapevo da che parte prenderla.
Nell’immediato che cosa c’è per gli Assalti Frontali?
Cerchiamo di portare il disco in giro. Siamo un’esperienza totalmente indipendente, fare un album è un’impresa da tutti i punti di vista. Ti spreme dal punto di vista artistico, mentale, ma anche da quello economico. Noi abbiamo un bel team che lavora con noi, in ogni caso.
Esiste ancora forza nelle etichette indipendenti?
Devi sempre fare i conti col mercato, devi rientrare. Ma l’indipendenza è sempre una garanzia di libertà creativa, di bellezza. Poi però c’è l’equilibrio da cercare col fatto che la radio non ti manda… Noi siamo una mosca bianca, ci possiamo permettere cose che altri gruppi non possono permettersi. Oggi come oggi magari altri devono stare attenti a parlare. La scena indipendente, comunque, è quella che manda avanti la creatività, le novità. Quando stai troppo sul mercato diventi scontato. La scena indipendente è quella che ti dà la sorpresa.
Manca un po’ di coraggio al rap di oggi?
Penso che ci voglia il coraggio. Delle volte sento i dischi rap e dico quello che dico in una canzone: secondo la moda di oggi i rapper parlano di orologi e non del tempo in cui viviamo. Sento del rap fatto bene, però…
me sfugge er racconto della realtà in cui viviamo. Non è che deve essere solo questo, ma un po’ più di questo sì.