ASA HORVITZ – GHOST, 21/9/2023
Vienna, Brut Wien (Musiktheatertage Wien).
Le declinazioni del nuovo teatro musicale sono oggi molteplici, e sembra infatti che sempre più musicisti necessitino di ampliare il proprio gesto musicale alle parole, allo spazio scenico, ai movimenti e – più in generale – al racconto, esattamente come gli artisti visivi si sono aperti ai suoni, al corpo e alla performance.
Il festival Musiktheatertage Wien predilige forme sperimentali di teatro musicale, alternative nelle prassi, nelle scelte, nei luoghi e nelle economie rispetto ai programmi dei grandi teatri istituzionali, che tradizionalmente ospitano questo formato.
Il confronto tra la pervadente intelligenza artificiale i suoi usi nella musica, nel teatro e nell’opera era al centro della riflessione e del programma MTTW 2023, dove ha trovato posto anche la performance GHOST del musicista americano Asa Horvitz, nipote del pianista Wayne, che è in scena con lui insieme a Carmen Q. Rothwell e Ariadne Randall.
Lo spettacolo, lungo circa due ore, si svolge in uno spazio aperto, con il pubblico seduto in una intima gradinata, in un rosa senza cambi luce, rarefatta nella composizione spaziale e in quella musicale, che qui corrispondono felicemente. I quattro musicisti in scena si avvicendano agli strumenti (piano, modulatore, synth, armonium, viola da gamba, vari gong e lamine percussive) e alla voce, come in un playground quotidiano o in un salotto di amici ispirati, che improvvisano istintive coreografie musicali. Senza strappi a questa intimità, Asa Horvitz accoglie il pubblico all’entrata con grande empatia e gli consegna le chiavi di questo rituale privato, mettendolo a parte delle vicende che hanno ispirato il lavoro a cui assisteranno, i simboli nascosti, le prassi. Mostra il sistema di Intelligenza Artificiale usato per la generazione del libretto: poeticamente imperfetto, e primordiale, è stato creato dall’amica programmatrice Serafine Tarant e nutrito di letteratura alta e pregnante sulla perdita, il lutto e la morte (tutti i libri sono indicati nel booklet che ci viene consegnato) e risponde a domande concrete in maniera ellittica, casualmente profonda, frammentaria, a volte nonsense ma spesso rivelatoria; umana.
Così, con il pubblico istruito, inizia una veglia di lutto diversa: è un memoriale espanso per un musicista e artista, padre, fratello, essere umano che è mancato, troppo presto, vari anni fa, e la cui presenza è ancora percepibile dentro e fuori la cerchia familiare, fra pianti quotidiani, simboli, tradizioni, ricordi e tanta musica. Tutto disponibile, nessuna gerarchia, tutto risonante: una specie rara di magia risolve questa complessità in una composizione musicale semplice, concreta, a volte sprecisa, o fallace – come le relazioni umane e la vita – ma sempre pertinente.
La forma solida, provata, coreografata, permette di farci apprezzare l’ineffabile, quella fragilità che aleggia, il fantasma del titolo, che altro non è che lo spirito, la temperatura della performance stessa. La musica è tanto aperta quanto riconoscibilmente familiare: gli echi jazz del pianismo di Horvitz-zio, le andature e melodie folk appoggiate su discordanze elettroacustiche proprie della new music newyorkese e non (fanno pensare a Robin Holcomb), gli intervalli medievali, gli inni. E, sorpresa pre-finale, la conduction dello zio Wayne con una improvvisata brass-band locale (Christina Baumfried, Thomas Liesinger, Max Nagl, Anna Tsombanis, Phil Yaeger), omaggio alla modalità che Wayne e il fratello Philip, e tanti altri musicisti, condividevano con Butch Morris. Morris, J.A Deane e i fratelli Horvitz erano anche grandi amici, come ci racconta il pianista a fine serata, cosa non secondaria in questo contesto. È uno spettacolo dove il racconto privato, l’esperienza della vita creativa, la scena musicale, le relazioni, diventano un archivio infinito di ispirazione e reinterpretazione, da chi se ne è andato per chi resta, materiale da ricombinare per un’arte collettiva e condivisa che riesce a colmare anche la mancanza fisica: questa indagine del privato, effettuata come pretesto, al fine di restituirne l’essenza universale e condivisibile, è in fondo la cifra distintiva dell’incontro tra musica e arte performativa, territorio dove la linea tra essere e fare è particolarmente, felicemente sottile.