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ARTO LINDSAY, 16/11/2017

Bologna, Locomotiv. Foto di Marianna Fornaro.

Fa tappa a Bologna il tour di presentazione di Cuidado Madame di Arto, il primo disco di inediti a tredici anni da Salt, e la sorpresa è già nella formazione ridotta, con Marivaldo Paim alle percussioni, Luis Felipe de Lima alla chitarra acustica e Lindsay alla consueta Danelectro turchese e alla voce. Per quanto mi riguarda stiamo parlando di un Re Mida, di uno dei più grandi in assoluto, e il concerto bolognese non ha fatto che confermare questa mia strenua convinzione.

Attacco feroce e senza compromessi con un po’ di coltellate noise, tanto per gradire e scaldare gli animi dei – non moltissimi, locale solo mezzo pieno – presenti, assaliti dal consueto chitarrismo disumano e musicalissimo, metallico e poetico, ispido e romantico, sebbene ci inviti a stenderci su un letto di chiodi, manco fossimo dei fachiri. Ma il segreto è tutto nel perfetto equilibrio, in un senso della misura fuori dal comune (i tocchi di noise saranno dosati magistralmente, durante il live) e in una grazia innata, evidente nel modo pulito e lievissimo di porgere la voce, in canzoni che sono un mirabile e unico compromesso tra languori carioca e bahiani (a un certo punto viene riproposto anche un pezzo del sambista Batatinha), costruzioni ipermoderne da architettura da downtown newyorchese e un perenne senso di levità, con un groove sempre sotteso e rotolante a portare per mano l’ascoltatore, affascinato da queste che – seppur orecchiabilissime e accoglienti – restano esplorazioni. Nessuno infatti fa quello che fa Lindsay, o almeno come lo fa lui: un felicissimo clash tra la classicità del Brasile devoto alla bossa, ai tamburi afro del carnevale, alla samba, alle invenzioni melodiche dello choro, e le asprezze urbane di un suono da Tetsuo l’uomo di acciaio.

Stasera però la componente elettronica e il groove pulsante del basso vengono a mancare (di solito fulcro di ogni formazione o quasi del nostro è Melvin Gibbs, mastodontico bassista, già con Henry Rollins, una vera macchina sonora) e il trio si presenta, a parte Arto, in una dimensione completamente acustica. Se all’inizio mi pare di sentire proprio l’assenza del basso, dopo poco mi accorgo invece che non serve altro: i pezzi scorrono via perfetti nella loro nudità e semplicità, con le frequenze più gravi occupati dai tamburi del bravissimo Paim, disarmante nella nonchalance con cui intesse aerei controtempi e orchestra un ritmo sempre puntuale ma che resta sempre un filo indietro, come un invito a sedersi ed a contemplare. Che cosa? Il fascino classico di melodie senza tempo, che rimandano ai re del subcontinente latinoamericano, a Tom Jobim, a Joao Gilberto, ma che hanno pure un compagno di viaggio nel genio di Tom Zé (uno dei più grandi musicisti del Ventesimo e del Ventunesimo Secolo, punto). Se in Cuidado Madame la parte elettronica con synth e ritmi programmati aveva un ruolo fondamentale, oggi nessun problema: Arto, da arrangiatore e produttore sopraffino quale è, sceglie di svestire i pezzi per mostrarceli nella loro nuda essenzialità, e tutto funziona a meraviglia. Si va dalla sensuale “Ilha Dos Prazeres”, che mantiene ciò che promette con il leader nei panni di Circe per noi ascoltatori ammaliati e impossibilitati a resistergli, a “Seu Pai” e “Pele De Perto”, il trio ci porta per mano in un Brasile reale e immaginario, in un mondo velato da uno stupore tipo pellicola (il titolo del disco viene da un film di Julio Bressane), con Lindsay, sempre sorridente, che ancora una volta conferma il suo stato di grazia, anche come cantante, oltre che ovviamente come musicista (è una delle teste più preziose dei nostri tempi, dai giorni feroci dei Dna, passando per i Lounge Lizards, la produzione di un disco degli Avion Travel e una carriera solista in cui ha inanellato solo perle, sin dai tempi di Mundo Civilizado, e ho citato arbitrariamente solo alcune tappe di un percorso oramai quarantennale). La sua voce benedice canzoni che sono già miracolose per la profonda semplicità con cui arrivano, pur essendo, e questo è evidente, frutto di un lavoro di produzione certosino ed articolatissimo. Unica nota lievemente stonata è l’inspiegabile richiesta da parte di un’improvvida fan di ripetere un pezzo già eseguito ad inizio concerto, ovverosia “Simply Are”, da Noon Chill: Arto l’accontenta, nonostante abbia fior di canzoni ancora da pescare, tra cui “Illuminated” (da Invoke, 2002), “Beija Me” (idem) ed “Este Seu Olhar” (da O Corpo Sutil, 1996), quest’ultima scritta da Vinicius Cantuaria, un altro brasiliano che ha lavorato con lui creando autentiche perle come O Corpo Sutil, appunto, ma anche il disco Tucumã, uscito a nome Cantuaria ma con l’americano presente come autore e musicista (segnalo inoltre che nel 2011 Vinicius e Bill Frisell ci hanno regalato il riuscitissimo Lagrimas Mexicanas).

Un’ora abbondante di pura bellezza distillata.