Aria di rivoluzione: la musica come fatto comunitario nel racconto di un curatore. Intervista a Roberto Fabbi
Roberto Fabbi è curatore artistico di Aperto/Rec Festival per la Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, la città dove entrambi abbiamo la ventura di vivere.
Dopo anni di mia frequentazione ai suoi concerti e spettacoli (sarebbe lunghissima la lista di cose extra-ordinarie che ho visto in questi anni, mi limiterò a nominare Boredoms, Steve Lacy, Ryoji Ikeda, Societas Raffaello Sanzio, Otomo Yoshihide, Diamanda Galas) ho pensato che fosse arrivato finalmente il momento di far parlare chi sta dietro le quinte, dando vita a rassegne che rappresentano un vero e proprio atto di resistenza in tempi come questi, assediati da ogni lato da un conformismo sempre più soffocante.
La recensione degli spettacoli visti per l’edizione di quest’anno di Aperto la trovate qui.
Mi interessa il tuo punto di vista di organizzatore “istituzionale” . Come diceva il tuo amico Freak (Roberto Fabbi ha conosciuto Freak Antoni degli Skiantos ai tempi dell’Università ed era un suo amico, ndr), è proprio vero che non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti?
Roberto Fabbi: Bene, comincio con una divagazione. La frase/simbolo che citi punta il dito contro l’andazzo italiano, ma allo stesso tempo è una satira delle frasi fatte, comprese quelle fatte da lui. Un po’ come dire: non fidatevi di quello che dico (e per estensione di quello che vi dicono)… è chiaro che Freak era un pensatore dialettico.
Questo per dire che anche se culturalmente, socialmente e politicamente, quel gusto in effetti non c’è, l’unica possibilità è usarla, l’intelligenza, che la cosa sia gratificante o meno.
Le arti dal vivo possono essere un antidoto alle varie forme di anestetizzazione vigenti; non è automatico, è un potenziale che va innescato e favorito.
Una comunità temporanea unisce saperi, abilità e forze in vista di un obiettivo: questa è l’intelligenza anche intrinsecamente politica della cosa teatro, ma deve essere liberata, cioè creata, organizzata e resa pubblica.
L’aspetto comunitario e umano è per quanto mi riguarda il criterio primo della qualità artistica; non perché progettualità, ricerca, innovazione, linguaggi vengano dopo, ma perché se non camminano su quello, questi inciampano.
La mia formazione è la musica, ma è sul campo che ho imparato a ragionarla teatralmente, come fatto comunitario e drammaturgico; si tratti pure del concerto più scarno e diretto.
Lavoro per un teatro che consente di lavorare così o insomma, di tendervi. Sicché mi sento più fortunato che istituzionale.
Mi fai un racconto di Aperto e di Rec, spiegando a chi sta fuori chi è passato da queste parti, quali sono i progetti a cui sei più legato, gioie, noie, rimorsi, desideri?
Il festival Aperto è nato nel 2009, dalla confluenza di due festival che prima erano indipendenti: Rec e Red (Reggio Emilia Contemporanea e Reggio Emilia Danza). Anche se la musica e la danza ne sono i pilastri, Aperto ha un raggio d’azione che investe tutte le arti performative e un principio: stare in connessione con il mondo. Cioè lo specifico artistico diventa una riflessione sul contemporaneo, sul nostro tempo.
L’arte pura o fine a se stessa non esiste, e se esiste può e deve comunque essere inclusa in un contesto sociale e politico. Privilegiando progetti in sintonia con questo spirito, Aperto vuole essere a sua volta un progetto. Un progetto fatto di progetti. La parola è abusata, lo so, ma il lavoro progettuale serio e vero non lo è. Ed è grazie a questo che la varietà di proposte diventa coerenza, identità e carattere.
Queste idee si affermano nella stessa città che da decenni ha un rapporto privilegiato, critico e in qualche modo eccentrico con il moderno. Una Singolarità. Sono tanti i presupposti e voglio fare un esempio strano: i Cervi, che negli anni 30 installarono permanentemente un mappamondo su uno dei primi trattori in uso nel circondario (a proposito di connessione con il mondo). Ma diciamo che senza il lavoro culturale di un grande sindaco (Renzo Bonazzi, in carica dal 1962 al 1975), oggi le cosa starebbero in tutt’altro modo. A Musica/Realtà – che non fu un festival ma un’invenzione anche organizzativa, inclassificabile – poteva capitare di ascoltare nella stessa occasione Pollini, una sperimentazione elettronica e un canzoniere politico. Esperienze irripetibili, sia chiaro, e Aperto non somiglia loro. Ma chi opera oggi non dovrebbe ignorare queste storie che sono storia, mi ci sento dentro e ne sento la responsabilità come un giardiniere: nuovi rami germogliano se la pianta ha radici forti.
Da Rec/Aperto sono passati musicisti di ogni sorta, da Ryoji Ikeda ai Boredoms, da Cecil Taylor/Anthony Braxton (insieme) a Rob Mazurek a Wayne Shorter, da Gidon Kremer ai migliori interpreti di musica contemporanea; si è lavorato con compositori come Montalbetti, Cifariello Ciardi, Nova, Guarnieri, Battistelli, Goebbels, Romitelli. E con compositori/artisti mediali che sconfinano dalla musica come Yuval Avital. E Mouse On Mars, Cristina Zavalloni, Herbert, Sakamoto, Anderson/Reed, Luci, Galas, Wadada, Ornette Coleman, Zamboni, Yoshihide, Zeitkratzer, Icarus, Aidoru, il folk di Bella Ciao o dell’Usignolo… ne sono passati tanti, l’elenco è arido ma dà l’idea.
Ricordo con la stessa incredulità di allora l’installazione dal vivo “a tutto teatro” di Christian Boltanski, Tant que nous sommes vivants. Chi c’era sa di aver partecipato a un’esperienza difficilmente descrivibile. Ti dico solo che il teatro e ogni suo meandro erano scomparsi, entravi in un incanto sospeso fra nebbie, lame di luce, presenze, musiche e nevi nere – totalmente disorientato, emozionalmente denudato. Il simbolo di Aperto è uno “svoboda”, una batteria di luci che si usa in teatro e che in quell’installazione era quasi un personaggio. Un evento importante anche perché ci ha insegnato a rivoltare il teatro come un guanto, a servircene come uno spazio potenziale, e non solo come uno spazio dato.
Anche ottenere un sold-out con gli Einstürzende Neubauten al Teatro Valli (cioè un teatro d’opera con ori e velluti) è stato di grande soddisfazione; anche quello, in un altro modo, un fatto di decontestualizzazione.
E la tre giorni di Stockhausen per concerti e incontri al Teatro Ariosto, un genio immensamente visionario.
E lo Shark recentissimo con Peter Rundel, che ricorderò per un pezzo.
Dicevi formazione musicale. Mi racconti? Si ascoltava musica in casa tua?
Da bimbo ho assorbito l’opera (con le esalazioni del toscano) che il nonno ascoltava da una radio-giradischi. E i Beatles che i grandi del cortile mettevano nel mangiadischi. A Musica/Realtà, ragazzino, mi si è aperto un mondo: le avanguardie e la politica, l’improvvisazione e la canzone, Pollini, Nono, Beethoven, Bartók e il Nuovo Canzoniere Italiano. E per altre vie, altri mondi: Bob Dylan, CSNY, King Crimson, Area, Don Cherry, Giovanna Marini, il Canzoniere del Lazio (Lassa sta’ la me creatura è uno degli album italiani più belli di sempre).
Credo sia questo imprinting fatto di strane associazioni a impedirmi di preferire un genere a un altro. Anche se poi sono la musica classica e contemporanea che ho studiato all’Università, quando il DAMS di Bologna era il contrario di un’accademia. Si faceva lezione in una specie di garage con muffe variopinte alle pareti, spesso in una gran confusione: è stato bellissimo. C’era Franco Donatoni, compositore e mente speculativa: entrava e usciva dalla musica, per toccare il pensiero e il senso delle cose. E c’era Roberto Leydi, che ci riferiva le sue ricerche recentissime sulla musica di Creta. E Piero Camporesi che commentava i passaggi erotici del Furioso (che non sono pochi). E Gianni Celati, che insegnava Conrad e non parlava mai di sé in quanto scrittore. E Aldo Clementi, altro grande compositore, a lezione sempre immerso in una nuvola di Gitanes. Questa gente non ti “insegnava una disciplina”, ti apriva la testa. Alla fine feci la tesi su Olivier Messiaen, uno dei compositori più influenti del XX secolo.
Traumi o epifanie?
Trauma: quando a 20 anni, al conservatorio, ho mollato il fagotto con un brutto senso di sconfitta e rigetto per la musica tutta.
Epifania: quando un paio d’anni dopo mi sono ripreso, e la musica l’ho ritrovata.
Traumi veri come le guerre del Golfo o in Kosovo o il golpe contro Gorbaciov non hanno conosciuto epifanie – ma sto andando fuori tema.
Il tuo primo ricordo musicale?
Gianni Morandi, Fatti mandare dalla mamma.
Band(s) della vita?
Quelle nominate sopra. Oggi non mancano cose belle, ma non vedo band che si affermano in quanto tali. Ti faccio io una domanda, se posso (vera e non retorica): esiste ancora il rock?
Disco imprescindibile?
Tutto Nick Drake, e specialmente Five Leaves Left. Brian Eno, Another Green World. King Crimson, Red… Come si fa a scegliere?!
Hai mai suonato?
Oltre al fagotto, interrotto, la chitarra ovviamente autodidattica. Mettere malamente le mani sul pianoforte è stato d’ausilio agli studi teorici. Più che altro di musica scrivo, cose specialistiche, critiche. Ma sempre meno: il teatro assorbe quasi tutte le energie.
Che tipo di ascoltatore sei?
Spontaneo, diciamo. Una musica suscita il mio interesse o disinteresse in modo diretto, per via dei sensi (al plurale, non è coinvolto solo l’udito). Solo in un secondo momento ne cerco le ragioni. Non sopporto i sottofondi, la musica che ti arriva da ogni parte non richiesta è una vera molestia. Molto meglio un rumore di fondo qualunque. L’ascolto è un’attività, qualcosa di attivo, e saper ascoltare va molto al di là della musica. La musica ti può insegnare la virtù relazionale, lo spero ma non sono sicuro che sia vero. Amo una cosa assai usurata ed esposta alla banalizzazione: la melodia, perché la sua efficacia espressiva è un mistero. Nessuno è mai riuscito a spiegare come e perché funziona.
Cosa rende al tuo orecchio una musica interessante?
Deve riuscire a portarmi via. Quando la musica finisce e ritorno qui, qui non è più uguale a prima.
Perché questo accada, deve esserci del movimento: aria, motorini e stratificazioni. Il movimento dei suoni si fa calco dei movimenti della psiche e tu provi emozioni che non ci sono. Col Requiem di Mozart esperisci il movimento psichico di un lutto vertiginoso e fiammeggiante, anche se in effetti non sei in lutto.
Che vita sarebbe senza musica?
Questo non lo so. Ma so che è la vita a dar senso alla musica, e non il contrario.