Aperto Festival – Aliæ Lunæ
Qui non è più uguale a prima
5 ottobre /17 novembre
“Cosa rende al tuo orecchio una musica interessante? Deve riuscire a portarmi via. Quando la musica finisce e ritorno qui, qui non è più uguale a prima”.
Nell’intervista che gli ho fatto l’anno scorso, così Roberto Fabbi, il deus ex machina di Aperto Festival, giunto quest’anno alla undicesima edizione, ci spiegava cosa deve fare una musica per essere interessante. Condivido in toto la risposta e l’approccio a questa sotteso, che ha avuto qualche plastica dimostrazione di esistenza e qualche, anche clamorosa, negazione nei concerti ai quali ho assistito nell’arco di più di un mese.
La kermesse, che abbraccia musica, danza, teatro e visioni, è stata anche quest’anno davvero varia e ricca (qui il racconto di quanto visto nell’edizione 2018).
Chi scrive, per scelta e per motivi contingenti, ha scelto di seguire soprattutto gli spettacoli dedicati alla contemporanea sul palcoscenico del Teatro Valli: “Sol Diesis” il nome della rassegna nella rassegna, un programma dedicato al repertorio di monumenti viventi – e non – come Karlheinz Stockhausen, Terry Riley, Steve Reich e György Ligeti, tra gli altri.
Gaze Through The Stars è il primo appuntamento, oltre che titolo di un disco del 2018 con Walter Prati (elettronica, violoncello), Riccarda Belgiojoso (pianoforte, tastiera), Mario Mariotti (tromba): fissare le stelle e attraverso queste proiettare il proprio pensiero, la propria esistenza in un altrove indicibile se non con la musica. Il disco, pubblicato dalla Da Vinci, un’etichetta con quartier generale a Osaka ma gestita da tre italiani (Edmondo Filippini, Gabriele Zanetti, Chiara Bertoglio), vedeva i tre interpreti cimentarsi anche con alcuni pezzi di Intuitive Music, ovverosia una forma di improvvisazione nella quale i tradizionali spartiti sono sostituiti da istruzioni grafiche o verbali: il concetto era stato introdotto da Stockhausen stesso nel 1968. In concerto, però, il duo (Prati si limita all’elettronica) si concentra solo su “Tierkreis”, una composizione del 1974, periodo nel quale l’autore dichiarò di essere in diretto contatto con il cosmo. E infatti ascoltiamo una musica imprendibile e intraducibile a parole, haiku spaziali scritti con un altro alfabeto, abissi, buchi neri, pulviscolo stellare, enigmi su enigmi, posti che non si possono descrivere in cui trovi vertigini, voragini, uno scrigno adagiato sul fondo di oceani galattici. Ambient, Aphex Twin, i Boards Of Canada in ayahuasca, le ombre della minimal techno più austera, universi paralleli, è impossibile calcolare fino dove si spinga la grande influenza del genio visionario dell’autore. Un requiem alle nostre intenzioni, o canzoni impossibili da un altrove misterioso, proprio quell’altrove con cui il grande visionario diceva di essere in comunicazione. La seconda parte del programma prevede i bagliori ascensionali di “A Rainbow In Curved Air” di Terry Riley: un loop infinito che fiorisce e si avvita su se stesso; accenti sempre uguali e sempre diversi nell’estasi della ripetizione e della differenza, fino a che per un momento ti distrai e non ti accorgi di essere finito da un’altra parte. L’ipnosi non si mantiene a dire il vero intatta per tutta la durata di una composizione che per restituire la magia originale ha bisogno di un equilibrio basato su dettagli infinitesimali, ma resta comunque la perfezione del silenzio finale a sigillare un concerto molto buono.
Pessimo, senza giri di parole, è invece lo spettacolo “Songbook by Tovel” (al secolo Matteo Franceschini), fresco Leone d’Argento della Biennale Musica. Sul palco del Teatro Cavallerizza abbiamo un quartetto rock, un ensemble di musica contemporanea (Icarus Ensemble) e un coro (Cantus Ensemble); l’inizio promette ciò che poi non saprà mantenere. L’autore, al basso e ai live electronics, apre con una minimale figura di basso che suona come cold wave affilata e scabra, gli interventi della tiorba (un liuto basso) sono stranianti ed efficaci. Poi però prevale subito un’enfasi rock e si palesa una scrittura poco a fuoco; composizioni fracassone dove l’ensemble di contemporanea ha un ruolo puramente decorativo. Un mix, sulla carta interessante, ma che all’atto pratico nelle parti più ambientali funziona anche, pur non uscendo dai binari del già sentito, mentre quando tenta la fusione dei linguaggi non convince mai. In alcuni frangenti sembra di ascoltare due formazioni distinte che provano in due stanze adiacenti, alcuni momenti dal sapore quasi prog sono decisamente interlocutori. Una voglia di stupire, un gigantismo che perde di vista l’aspetto centrale del fare musica: un’idea, anche semplice, che funga da scintilla. Il dettato, invece, nella sua prolissità, suona complicato e non complesso, costruito, non naturale. Fughe in avanti quasi post-metal, scelte timbriche e compositive poco chiare, maldestri esercizi di pluristilismo che lasciano solo noia. Eppure qualche lampo di bellezza, pur nel pasticcio generale, si avverte: un groove che è un riuscito basilisco con testa King Crimson e corpo funk urbano poi però si perde in labirinti ritmici che fanno affiorare non benvenute memorie di fusion, per poi inopinatamente mutare in un rock innocuo. Un buco nell’acqua.
Si torna alla musica grazie alla quale “qui non è più uguale a prima” con K & K Elektro Gesängen, in due parti: i canti elettronici di Stockhausen eseguiti prima da Massimiliano Viel (elettronica e ribbon controller, un synth che risponde ai cambiamenti di voltaggio e resistenza causati dal movimento delle dita sulla sua superficie) con Spiral (1968), poi da Laura Faoro al flauto in “Kathinkas Gesang”, con la regia del suono di Tempo Reale, nella persona di Francesco Canavese.
“Spiral”, per solista e radio a onde corte, è estrema e abbacinante: flauti cosmici, trasmissioni siderali, allunaggio, pause, suoni come apparizioni e sparizioni, eventi in uno spazio senza gravità, cenni di sentinelle dell’aldilà, scritture al buio. Una fiamma ossidrica a bassa, bassissima intensità che fa scomparire lentamente, inesorabilmente la pellicola di consapevolezza che si frappone tra ascolto e stupore; modulazione di frequenze che frequentano l’abisso, la vertigine del tempo, ancora , la voragine. La stessa in cui cadiamo senza timore con la performance di Laura Faoro; la flautista si muove in scena interpretando Lucifero, l’archetipo di ogni anima terrena, alla ricerca della luce eterna. Una ricerca abbagliante e che lascia attoniti e meravigliati, sul bordo di un abisso che conforta e terrorizza al tempo stesso. Musiche che sembrano scritte domani. Come “Discorso Di Gagarin Attorno Alla Terra”, in prima assoluta, una composizione di Mauro Lanza del 2017, inafferrabile nel suo far nascere il caos da una melodia quasi infantile, magnificamente resa dal duo Métamorphes (Andrea Corazziari e Antoine Didry-Demarle), due pianisti ad esplorare un repertorio che si alterna tra materiali poco conosciuti (“Incalzando” di Gérard Zinnstag, del 1981) e pietre miliari come “Piano Phase” di Steve Reich, dove il 6/8 iniziale lentamente, impercettibilmente, muta forma restando sempre uguale e sempre diverso, in una lunga teoria di battimenti e di lievi spostamenti che ancora sanno rapire.
Troppo rassicurante invece il concerto del Kronos Quartet, un’istituzione da molto tempo, certo, che però ha offerto un concerto deludente. Nella prima parte i navigati e bravissimi musicisti si sono mossi nel loro sterminato repertorio con ammiccamenti ad altri mondi normalmente non frequentati dai quartetti, come da loro tradizione: l’incipit con il traditional “House Of The Rising Sun” ha fatto presagire a chi scrive come sarebbero andate le cose; una versione accomodante, priva del dolore dell’originale senza spigoli, come la gran parte del materiale eseguito, che ha incluso anche “Another Living Soul”, un pezzo di Nicole Lizée facente parte di Fifty For The Future, un interessante progetto di libreria liberamente accessibile. Nello specifico della composizione, l’uso dei tubi sonori è parso didascalico, come lo sviluppo del pezzo stesso. “Clouded Yellow” di Michael Gordon, più impressionista ed ambientale, con suoni lunghi e una dimostrazione del magistrale controllo sullo strumento degli interpreti, finalmente ha scosso un po’ gli animi, spettinati da una “Alabama” di John Coltrane nitida e dolente, magnifica. “The Electron Cyclotron Frequency Parlour”, scritto da Terry Riley per il Kronos e commissionato dalla Nasa, con suoni dal Voyager, mantiene solo in parte il decollo e la deriva che promette. L’impressione è di una musica suonata con perfetta grafia ma sovente troppo educata, prevedibile, poco viva. Migliorano le cose nella seconda parte con la cantante iraniana Mahsa Vahdat, anche se resta un sapore estetizzante, che sparisce solo nel finale dedicato ad un canto curdo.
Anche quest’anno il Festival Aperto ci ha fatto comunque spalancare cuore e orecchie sull’inaudito, e di questo gliene va reso assoluto merito.