ANTHONY PATERAS, Collected Works (2005-2018)
Non sempre la totalità salva le parti che la compongono. Può accadere, al contrario, che il particolare sia ben più significativo al di fuori dell’aggregato che lo include, ed è ciò che accade in questa sede. La produzione musicale che ci accingiamo a valutare si incardina intorno alla staticità, in tre modi differenti: staticità monocorde, staticità liberata e staticità evocativa.
Alla porta di ingresso dei cinque dischi che raccolgono 13 anni di opere e performance miste nell’organico (e discontinue per efficacia), Pateras si presenta con qualcosa che sta tra una om strumentale e un segnale sonoro fisso, stile camera di rianimazione: dieci minuti di estenuato feedback tra elettronica e contrabbasso sulla nota la, con corde a vuoto prese nel feedback minimalista di armonici specchianti. “A Happy Sacrifice” (2018) è dichiarazione programmatica della preesistenza di libere onde sonore, di contro a qualsiasi gesto musicale e al di qua del ruolo attivo del musicista. Il pezzo successivo (Sphinx Riddle, 2017) non si discosta più di tanto; soltanto, il piano riverberato (e preso nella consueta ragnatela dei feedback) è più teso nell’articolazione e nell’apertura armonica, ma si tratta sempre di un’adorazione della risonanza (e della ridondanza), se pur colta nell’esercizio spontaneo dell’auto-ascolto. La traccia successiva, “Thinning” (2018), forse la più disturbante mai pubblicata da Pateras, lavora col sintetizzatore sulla captazione algoritmica di tre suoni multifonici al clarinetto: il risultato è una sorta di micro-sequenza à la Berio, meno lo studio tecnico sulle avveniristiche possibilità dello strumento. La poetica della risonanza prosegue indefessa con “Down To Dust” (2018), dove il violoncello ha, per così dire, lo scopo prefissato di tramutarsi in ronzio, e sempre più acuto.
Mentre questo primo disco presenta cinque solisti catturati dalla pratica ludica di processi elettronici, col secondo entriamo in contatto con ensemble ampi, da coordinare: “As Long As Breath Or Bow” (2013) vede nove musicisti alle prese con pattern cromatici reiterati in un minimalismo già ampiamente digerito da Morton Feldman, fino a quando, a circa metà della composizione, si levano ritmiche grida straziate del violino, in un crescendo che termina in una nebulosa ligetiana. Un ticchettio metronomico irregolare e asimmetrico apre “Decay Of Logic” (2017). La musica si implementa con accordi in selezione aleatoria, e procede per accumulazione notazionale e chi suona è disposto in un ottagono elettro-acustico che circonda il pubblico. L’effetto di informe massa sonora viene allontanato soltanto dall’intervento del pulsing ritmico.
Il terzo disco ci catapulta subito in incubi pseudo-polanskiani con “All Of Your Nightmares At Once” (2012). Vibrafono e crotalo tintinnano e serpeggiano cromaticamente dentro la nostra scatola cranica, rilasciando aloni timbrici compulsivi (la quinta e ultima parte della composizione condensa in maniera tematica il materiale delle precedenti). “Infinite Variations On Collapsed Time” (2016), per chitarra a dodici corde, vibrafono e piano preparato, suona come un rotto carillon che continua ad esalare la sua vecchia melodia, con beat stratificati e autonomi che assicurano un grande impatto straniante. In questa composizione è evidente uno sviluppo compositivo a carattere progressivo: forse il pezzo più articolato dell’intera raccolta. Si chiude con “Three Mirrors” (2014), traccia di segno totalmente opposto alla precedente, che deforma frammenti di scale e arpeggi sassofonistici con un gusto retrò da minimal soft house.
All’altezza del quarto disco, flauto ed elettronica rievocano una ritualità ancestrale (“A Reality In Which Everithing Is Substitution”, 2012). Una musica statica fino al congelamento, questa, ma non per questo non evocativa; a tal proposito, Pateras, nelle note interne del denso e dettagliato libretto, cita Simone Weil: “Only drama without movement is beautiful”. Con “Rules of Extraction” (2015) ricapitoliamo sulla temperatura mentale della prima traccia del primo disco: segnale fisso, stabilizzazione su poche frequenze, nessuna evocazione poetica. In “The Sound Sings The Speed” (2015) la musica concreta prende invece il sopravvento. Gli otto pianoforti preparati sono suonati in maniera volutamente scoordinata, dentro la prevalenza del parametro ritmico così che pare di essere in un negozio di anticaglie con orologi a pendolo e a cucù impazziti, ma l’emergere netto di un beat elettronico salva quella che parrebbe una farsa orchestrata dalla percussività. “Tam Tam +” è monotono reiterarsi di armonici senza alcun guizzo, ma potrebbe simulare il suono della creatio ex nihilo.“Prayers To Nil” (2014) è invece un fulgido esempio di come la voce sia l’altro luogo in noi, con il soprano che attraversa vari stili canori lungo una stessa linea melodica generativa.
Con il quinto ed ultimo disco mettiamo un piede nel territorio che fu di Luigi Nono. Così, “Ontetradecagon” (2010) mostra come sia cruciale la disposizione dei punti di emissione sonora in uno spazio occupato da più musicisti intenti ad improvvisare sul registro timbrico-ritmico. “Artifact Of Translation” (2015) è il pezzo più nordico dell’intera raccolta. Da un punto di vista percettivo, la melodica ci permette di sentire lo spostamento delle masse sonore sottostanti (c’è un sentore di calamità inquietante in tutta la composizione). Con “Fragments, Splinters & Shards” (2005) ci troviamo all’estremo opposto rispetto al punto di avvio del nostro excursus: qui regnano disarticolazione, variabilità isterica, brevità epigrammatica, aggressione sonora. Una raccolta per certi versi pretenziosa ma che, tuttavia, contiene al suo interno alcune isole felici.