ANKUBU, [ W S 0 1 1 7 _ A ]
Il nuovo disco di Ankubu fa abbastanza impressione. Scrivendo di quello precedente, sottolineavo come fosse molto moderno, a suo agio in mezzo al resto della cosiddetta musica elettronica di oggi, ed è così anche questa volta. Si capisce subito quanto Marco Zanella sia attento a ciò che gli accade intorno, per poi assorbirlo e farsene forza al momento di assemblare il suo materiale. In un primo momento, per deformazione, ho cercato di capire se in quest’album ci stavo sentendo Jebanasam, M.E.S.H, Ben Frost o Fatima Al Qadiri, perché nulla nasce dal nulla. Poi ho pensato che non fosse giusto come approccio (lo avrei adoperato per nomi con più hype e con uffici stampa dietro?) e ho provato a vedere cosa stesse prendendo forma nella mia immaginazione. Non so bene a cos’ho assistito: forse a un documentario su mondi digitali che vivono solo in qualche hard disk, o che magari esistono parallelamente al mio e non posso raggiungere; forse sono entrato nella testa di qualcuno/qualcosa, un insetto come un automa, un “altro da me”, ma potrebbe trattarsi pure di un cervello umano, del cui funzionamento in realtà sappiamo poco. Quel che è certo è che una volta calato in quest’atmosfera apparentemente sganciata dal (mio) reale, distratto da battiti di cui non riesco a indovinare i tempi e le traiettorie, ho rischiato di non tornare più indietro, di trovare chiusa quella porticina posteriore attraverso la quale sono uscito dal mio mondo, e di trovarmi a vagare per sempre come puro ammasso di dati lungo qualche cavo in fibra ottica. Questa cosa mi ha messo ansia. Dunque Ankubu ha vinto.