ANKUBU, RX_71_0 [+ anteprima di “Wish Hurt”]
Abbiamo già parlato di Ankubu, basta un link. Abbiamo anche già accennato alla dialettica uomo-macchina dietro ai suoi dischi: qui la macchina, volendo forzare, ma non troppo, è l’organismo umano che fa fronte a un crollo psicologico, come un computer che per non impallarsi comincia a chiudere i programmi da solo, qualcosa che poi assomiglia molto a ciò che succede quando si sviene.
Di sicuro in molti si relazioneranno al disco pensando allo stress lavorativo di questi anni impossibili da gestire, sempre se si riusciva a conservare un lavoro (in caso di disoccupazione, credo che i vari Skepticism o Disembowelment siano più adatti).
A livello di sound, mi sembra di nuovo chiaro che tutto ciò che ha fatto la Subtext sia un’influenza, specie i tre alfieri Porter, Jebanasam ed Emptyset, solo che al posto dello spazio esteriore c’è quello interiore, e non è affatto in buone condizioni. A questo punto il webzinaro partigiano prova a dire che Marco è in grado di dare una propria lettura di queste influenze e nessuno ci crede, perché è una frase-cliché. Va bene, ci sto, ma a me pare che – oltre a basse frequenze e percussioni devastanti, a stento contenibili da un buon paio di casse/cuffie – entri anche altro nel corso principale del disco, assai poco lineare e prevedibile (la jungle di “[ Ignite ]”) e che ci sia da una parte un gusto autonomo per le parti atmosferiche e dall’altra nessuna esitazione (stiamo parlando di qualcuno che ha anche una band postmetal) a essere punitivi in quelle più dirette (ascoltare “Emissary / Receiver”).
Noi mettiamo in ascolto “Wish Hurt”, che è un po’ una conferma di quello che scrivo: basta quasi solo un suono sospeso a lungo a creare un fondale sci-fi credibilissimo, mentre grappoli di percussioni si scavano la strada per trovarci e farci fuori. Tra l’altro, intelligentemente, l’etichetta Subtrakt ci chiede di osservare anche il sound design di “Wish Hurt”, in alcuni frangenti (penso alla partenza) molto rifinito.
Io dico di sì.