ANGELO OLIVIERI, Other Colors
Vedere è una forma di palpazione differita. L’occhio è una mano gigante che campiona il mondo. Piuttosto che registrare immagini e scenari ottici (come un tempo si credeva, a partire dalla teoria cognitiva dell’homunculus sensoriale) noi umani effettuiamo, al contrario, continue manipolazioni visive e campionamenti retinici per appropriarci del campo visivo e dei suoi contenuti più o meno in movimento. L’occhio non si sposta sempre dove il cervello gli indica di spostarsi. Così, immaginare e vedere non sono poi attività troppo distanti tra loro, anche da un punto di vista neuro-cognitivo, per quanto la prima reperisca i suoi dati nel magazzino retroattivo della memoria, mentre la seconda li capti dalla complessità attrattiva dell’ambiente. Tutto ciò vale ancor di più nel caso del daltonismo, dove la percezione del colore rimanda inevitabilmente alla coscienza del colore.
Orbene, che cosa succede se questa manipolazione esplorativa dell’ambiente “reale” viene travasata in musica? Accade di entrare nella visione sonora di Angelo Olivieri, e del suo ultimo disco, intitolato, non a caso, Other Colors (Angelo Olivieri, tromba; Antonio Jasevoli, chitarra elettrica; Lorenzo Feliciati, basso elettrico; Bruce Ditmas, batteria).
Qui, l’esperienza di vedere la musica si fa contingente. Senza voler parlare della padronanza strumentale e della ricchezza stilistica dei quattro musicisti, qualità già da tempo ampiamente accertate e riconosciute, ciò che riceve il nostro apparato uditivo è un paesaggio blues altamente modalizzato e felicemente disturbato da processi propriocettivi non comuni. Non c’è una linea melodica che non sia scolpita nel tempo di scorrimento delle immagini retiniche. Si ascolti, a tal proposito, “Vashkar” (Carla Bley), ovverosia come “far girare” un tema minimale ed altamente tensivo per sette minuti e non accorgersene affatto: merito del timbro e della pronuncia della tromba di Olivieri, della pulsazione libera ed irregolare di Ditmas, del basso rarefatto ed essenziale di Feliciati, delle spazializzazioni ed interpunzioni di Jasevoli. Ma anche la successiva “For A Gentleman”, composizione di Olivieri, merita particolare menzione, per quelle malinconia metropolitana che pare penetrare da una finestra aperta su prospettive post-davisiane. Non c’è poi un groove che non ritagli perfettamente l’immagine-movimento: difatti, anche nei momenti più liberi ed improvvisativi, asimmetrici ed esplorativi (“Dialogue” 1, 2, 3) percepiamo tutta l’intensità tattile di una re-visione sonora. La traccia che dà il titolo all’album, “Other Colors”, dal carattere intimo e innodico, è semplicemente ipnotizzante. Segnaliamo anche “Lonely Woman” (Ornette Coleman) per la notevole prova solistica e dialogica di tromba e chitarra, percepibili, dal minuto 3, in tutto il loro equilibrismo, come sulla corda di un trapezista con sotto il tappetto elastico della sezione ritmica. Il disco si chiude con una versione “aperta” di “Ida Lupino” (Carla Bley), con la sola esposizione del tema, ricolorata rispetto all’originale con tinte anti-radiose e liquide.