Angelica Festival: MAZE – Ensemble for Exploratory Music (29/5/2014)
Bologna, Teatro San Leonardo. Per le foto ringraziamo Giuseppe De Mattia.
Angelica è ormai ai suoi ultimi giorni per quest’edizione e fino ad adesso è riuscita a mantenere molto alta l’asticella. In un mese, con quasi un live al giorno, ha trasformato Bologna nella città in cui si può capire cosa succede nel mondo della musica contemporanea.
Oggi si parla di musica concettuale, quindi ritengo opportuno spendere più parole sull’espressione, e trattare l’evento in senso audio a posteriori come unitario. Gli atti sono quattro:
1. “Memory Space”, uno dei lavori più famosi di Alvin Lucier: qui Angelica decide di dare peso alla città che la ospita, rendendola protagonista di questa passeggiata sonora. Le istruzioni per creare un memory space sono le seguenti: recarsi in un ambiente all’aperto (urbano, rurale, ostile, benevolo) e registrare in qualsiasi modo (a memoria, con notazioni scritte o registrazioni su nastro) gli eventi sonori di quegli ambienti. Facendo successivamente ritorno a un luogo al coperto dove potersi esibire, ricreare, solamente tramite le voci e gli strumenti a vostra disposizione e con l’aiuto dei vostri dispositivi di memoria (senza aggiungere o rimuovere parti, senza improvvisazioni né interpretazioni) quegli eventi sonori esterni.
2. Angelica ha voluto dedicare più di un evento a Robert Ashley, mancato quest’anno. Dopo quanto successo all’inaugurazione del festival, stasera l’ensemble elettroacustico MAZE si fa portavoce dell’opera dello sperimentatore americano, riesumando uno dei suoi lavori più importanti (“in memoriam… Esteban Gomez”). In occasione della mappatura della costa dell’America settentrionale, Ashley immaginò un nuovo spazio conviviale per gli artisti all’interno del quale poter identificare la nuova musica americana. L’immagine traslata in teatro di quest’idea è costituita dai musicisti stessi che articolano una massa sonora pesante e minimale.
3. RAW è una delle esibizioni presentate da Angelica che più s’immerge nel contemporaneo. L’elemento di fascino è rappresentato dal fatto che la musica è quasi totalmente composta da un software: Max, del quale RAW è una “patch”. Il punto di partenza è materiale non finito: RAW elabora le opportunità creative di questi spezzoni e le consegna sotto forma di spartito ai vari musicisti, che si rivedono pennelli nelle mani di un artista virtuale. Questo puzzle incompleto viene terminato in modo più monumentale della precedente performance, e anzi si sente il frizzante corso dell’incognita da parte di chi produce i suoni.
4. In ultimo, “Trackers” s’impernia su di una ricerca di dati, personali e non, con i quali comporre. Scansione dell’iride, password, impronte digitali vengono codificate in pre-produzione e formano la base del materiale utilizzato per suonare. Chi performa ha a disposizione una partitura interattiva su i-Pad che serve sia a lui per produrre, sia al pubblico come aggiunta visiva. Il musicista si riversa nella composizione in quanto è capace di modificare alcune variabili. Ci sono anche delle parole che arrivano sullo schermo e determinano la partitura. Essa si genera in base alla composizione della parola stessa e anche in base al suo colore. Su questi spartiti virtuali viene poi basato il pezzo.
La realizzazione di quest’opera ciclopica e complicatissima è affidata, come accennavamo, al MAZE, gruppo che come mission sembra avere la riproduzione di progetti senza uno schema fisso. Per il primo set, ricostruzione immaginifica della città, le luci vengono quasi spente, in modo che la nostra concentrazione sia rivolta alla corrispondenza fra suono e luogo. Non è un compito semplice quello dell’ascoltatore, che più che un soggetto specifico riesce a percepire l’idea dell’ambiente generale. In ogni caso MAZE ci racconta di una città quieta e tranquilla in apparenza, ma che nasconde più caos di quanto faccia trasparire, pur alla fin fine non essendo così caotica come si potrebbe pensare. I musicisti sono dispersi fra il pubblico, un assetto necessario data la tridimensionalità del concetto. Gli strumenti (tra cui un clarinetto basso, flauto, più computer…) vengono utilizzati solo nel momento adatto per raccordare un qualche pensiero, mentre cercano di trasmetterlo a noi che assistiamo in modo piacevole alla musica e cerchiamo, non sempre con esito felice, di ritrovarci nella città in cui, in realtà, già stiamo.
La seconda e terza parte sono le più difficili da interpretare: è forte la presenza dei computer che rielaborano parti musicali e trasmettono informazioni ai musicisti stessi. Il teatro s’intride di piccole variazioni su un tema scandito e l’atmosfera si congela dopo essersi irrigidita alla fine del primo pezzo. Il compito di apportare la grinta viene lasciato al quarto, ultimo, atto, che stupisce il pubblico, abituato sino a questo momento a sonorità tranquille. Qui il gruppo si presenta sul palco e da subito inizia a sfoderare le note più imponenti dell’intero concerto, in un’elaborazione free jazz di ciò che si è sentito finora. Ad alcuni ricordano i Supersilent, ma a volte le corde del contrabbasso stridono così tanto – anche perché sono fatte vibrare in verticale – da non poter non far accorrere alla mente certi vecchi lavori di Zorn, e pure il modo in cui il fiato scorre nel clarinetto basso fa l’occhiolino al sassofonista dei Naked City. Sta di fatto che gli stili ricercati sono diversi, di sicuro per via della non regolare immissioni di dati musicali all’interno di uno spartito: è infatti l’astrazione che fa da compositore, e il collegamento fra concerto e concetto, in questo caso, è entusiasmante.