Angelica Festival: asamisimasa ensemble (27/5/2014)
Bologna, Teatro San Leonardo. Per le foto ringraziamo Massimo Golfieri.
La Norvegia in ambito musicale ha sempre avuto molto da dire, non sempre l’ha detto ad alta voce, però le sue parole, alla fine, sono sempre riecheggiate e hanno influito sullo sviluppo di decine di generi. Per la prima volta in Italia (ma solo dopo due anni dal premio Spellemann, il grammy norvegese, che si sono conquistati grazie a Pretty Sounds) è Angelica ad accorgersi di un altro dei massimi talenti del nord, questa volta per quel che riguarda la musica da camera contemporanea. Una scena, o meglio un’etichetta che può sembrare ormai priva di stimoli, che invece risulta essere una delle più divertenti e incoraggianti alternative per ascoltatori scettici.
Come per quasi tutto il festival è il Teatro San Leonardo a ospitare l’evento, e il tipico cinguettio di piccoli uccelli ci accoglie nelle non sempre comodissime sedute. Arrivo presto e riesco a mettermi in prima fila, ma mi attende una brutta sorpresa, che si incarna in un signore seduto nei posti riservati, incapace di fermarsi, tacere e non fare versi per tutto il tempo.
Il concerto è suddiviso in tre atti. Il primo, e più lungo, è tutto al femminile e il compositore è Helmut Lachenmann. Vestite ognuna con uno stile diverso, ma rispettando la regole del rosso e del nero, si presentano Kristine Tjøgersen al clarinetto, Ellen Ugelvik al pianoforte e Tanja Orning al violoncello. Il pezzo eseguito dal trio prende il nome di “Allegro Sostenuto”, forse per la grossa parte centrale, l’unica nella quale l’accenno di armonia verrà sostenuto tramite risonanze senza intercorrere in stacchi netti. L’intera concezione dell’opera è basata su di una duplice sequenza di suoni interconnessi, quelli lunghi e tenuti e quelli secchi, volatili e fulminei, che verranno mischiati per comporre un insieme omogeneo con un risultato sorprendente. In questo senso, il pianoforte è utilizzato in modo classico, però spesso si aggiungono note al di là del normale, ad esempio tramite un martello che ferisce la struttura, la quale, essendo a coda, genera una risonanza lieve e fa vibrare, delicato, il tutto. Il clarinetto è lunatico, a tratti è leggero e aulico, altre volte si rivela isterico e indeciso: in particolare, quando viene sostituito da un clarinetto basso, le notte più sottintese divengono le vere protagoniste. In ultimo, il violoncello è quello che visivamente regala più stupore: l’archetto tocca sì le corde, le fa stridere e ululare, ma è quando il legno viene schiacciato che la zona più concreta salta fuori. La Orning “esplora” il proprio ferro del mestiere durante tutta la sua composizione, e ne scaturisce una melodia originale e sapientemente intonata. La fusione discostata di questi elementi richiama la classica contemporanea come il jazz più d’avanguardia e la grinta esecutiva non può che rendermi ancora più curioso di assistere a cosa seguirà.
Il programma subisce una lieve variazione, perché il percussionista Håkon Stene si è lesionato una mano (ma sarà comunque attivo e, anzi, sarà la componente più bizzarra del set). Il compositore della seconda e terza parte del concerto è Øyvind Torvund, sperimentatore attaccato a molti ambiti diversi: questa sua poliedricità si riscontra nelle fusioni alchemiche di temi provenienti dal rock, dalla classica, dalla musica industriale… Saranno presenti Kristine Tjøgersen al clarinetto, Tanja Orning al violoncello, Håkon Stene alle percussioni alternative e Anders Førisdal alla chitarra. Il primo brano, “Willibard Motor Landscape”, è il manifesto degli scritti di Stene, nel quale fa riferimento a temi così lontani fra loro da riuscire alla fine a ricongiungersi in un pezzo ben accordato. Un altro protagonista è il field recording, che gioca una parte di introduzione ai suoni del palco, in modo che abbiano già un tappeto sul quale ricamare i loro discorsi. Pianoforte e clarinetto hanno molto da spartire con la chitarra distorta con effetti metal, ma a inchiodare insieme il tutto saranno le invenzioni di Stene, tramite trapani, pistole giocattolo, piatti sui quali armeggia con le mani e diversi scricchiolii e sibili. Questa struttura sarà ripresa, più composta, anche nella seconda parte “Neon Forest Spaces”, nel corso della quale il caos è inferiore, ma la chitarra diventa più acida e spigolosa. Qui, sempre con grande entusiasmo, Stene si butta nella più totale inarrestabile ondata di piccoli suoni che fanno saltare violoncello e tastiere (aggiunte in questa parte) e raccorda il tutto in modo divertente e professionale, geniale per l’ascolto, ancora più incredibile dal vivo.