ANGEL OLSEN, All Mirrors
Sembra sospinta da una forza prodigiosa, la nuova Angel Olsen. Quella di un lirismo talmente intenso da non risultare mai stucchevole. Prendete il primo estratto da All Mirrors, che dà titolo al disco stesso: forse è la canzone più bella che abbiamo ascoltato per ora nel 2019, nientemeno. È un incantesimo dream-pop virato al nero, una sontuosa danza di synth e archi che i Beach House e Julee Cruise ballerebbero volentieri assieme, in qualche Loggia dello spazio. Del resto, tutto il lavoro è fortemente legato al “lato oscuro” della songwriter americana. Oppure prendete una traccia complessa come “Lark” (sempre accompagnata da un video diretto dall’amica Ashley Connor), che apre la scaletta oltrepassando i sei minuti di durata, descritta dalla sua artefice che ha, non a caso, impiegato molti anni per completarla come un’esplorazione di ogni singolo cuore spezzato che abbiamo avuto.
All Mirrors è il quarto album di studio di Angel Olsen ed è probabilmente il suo migliore, di certo il più ambizioso. Basti pensare che all’inizio avrebbe dovuto essere pubblicato in due versioni differenti, una con esecuzioni minimali, “on her own”, e l’altra registrata con un’orchestra di quattordici elementi, con l’aiuto dell’ormai insostituibile produttore John Congleton, dell’arrangiatore Jherek Bischoff e del polistrumentista Ben Babbitt. Ha visto la luce soltanto quest’ultima, alla fine, con la band al gran completo, senza timore di spingere sull’acceleratore dell’epicità. Ne è venuto fuori un sound goticamente retro-futurista, mentre il cantato ondeggia tra caratteristico vibrato e inedite profondità. Bizzarro poiché si tratta di un’opera in sostanza introspettiva, nell’ottica di un percorso che arriva al raggiungimento della pace attraverso la solitudine, grazie all’allontanamento dalle altrui energie distruttive. Si parla in breve di cambiamento, che si proietta nel complessivo esito artistico.
La Olsen è perfettamente in controllo, persino quando va in pezzi. Dopo l’esordio Half Way Home, che nel 2012 rivelava un background folk, e l’indie pop-rock più spumeggiante di Burn Your Fire For No Witness, che nel 2014 fungeva da autentico trampolino di lancio per la sua carriera, il precedente My Woman del 2016 era stato un turning point per la songwriter, che si faceva ritrarre per la prima volta in copertina e si divertiva a mostrare numerose sfaccettature, a mettersi in gioco. All Mirrors è un ulteriore passo avanti perché c’è una precisa idea di fondo, nel mood e nelle soluzioni di stile adottate. Tra spontanea vulnerabilità e sfuggente autoironia, Olsen sceglie adesso di sfoderare appieno il proprio coraggio. Lo fa, come già detto, negli episodi più estremi nello sfarzo (e memorabili), ma lo fa anche in una “New Love Cassette” che rende dissonanti gli elementi classici con un pathos degno di Anna Calvi, in una “What It Is” che è cavalcata da lady delle fiabe dark e nel coinvolgente crescendo sul velluto di “Impasse”. Lo fa rendendo alieni i momenti più intimisti: dalla delicatezza blonderedhediana di “Too Easy” alla ballata con tasti tradizionali/digitali che è “Spring”, dall’aria rigorosamente notturna della confessionale “Tonight” alle corde di chitarra filo-country provenienti da un’altra dimensione di “Summer”, dalla fumosa nostalgia jazzy di “Endgame” ai déjà–vu 50’s srotolati nell’estesa “Chance” di chiusura.
“There’s a lot of drama”, direbbero all’estero. Ebbene, questa drammaticità è spesso sublime, è uno specchio che riflette i nostri desideri.