ANDREW PEKLER

ANDREW PEKLER

Nota della redazione: vista la partnership con Forma, lasciamo spazio ai ragazzi di DobiaLab per approfondire la conoscenza del loro ospite di sabato 20 ottobre.

Andrew Pekler è l’artista principale dell’appuntamento di “Forma – Free Music Impulsedel 20 ottobre presso Dobialab a Dobbia, Staranzano (Gorizia).  Attivo dai primissimi anni Duemila, Pekler, come scritto sulla sua pagina Bandcamp, sperimenta con vari “materiali, siano essi campioni, strumenti o convenzioni di genere” e nei suoi precedenti lavori ha “indagato elettronicamente la grana emotiva della musica easy listening, composto un intero album con brevi descrizioni testuali e installato un negozio di dischi in una galleria d’arte per vendere un disco con 300 diverse copertine”. Da questa breve descrizione è chiaro che il suo approccio alla musica elettronica è eclettico e mai banale. In occasione della sua imminente esibizione, l’abbiamo raggiunto via e-mail per porgli qualche domanda e conoscere meglio il suo lavoro.

A Dobialab abbiamo sentito il tuo lavoro per la prima volta con l’album Nocturnes, False Dawns & Breakdowns, pubblicato dalla ~scape, l’etichetta di Pole. In passato Dobialab ha ospitato per due volte un altro artista della stessa etichetta, Deadbeat. Il suono dei primi anni Duemila di artisti come te, Pole, Deadbeat, Jan Jelinek e Giuseppe Ielasi ha una forte identità e un posto preciso nello spettro della musica elettronica: una sorta di dub notturno, fumoso e allo stesso tempo d’avanguardia. Qual è il tuo rapporto con quelle produzioni? Ti senti o ti sei mai sentito simile a questi artisti?

Andrew Pekler: Quel tempo mi sembra molto lontano e ora lavoro in modo molto diverso, ma mi piace ancora la musica che ho pubblicato in quel periodo. Sicuramente ammiro il lavoro di Giuseppe Ielasi e Jan Jelinek, entrambi amici e collaboratori occasionali. Penso che quello che ci accomuna sia l’interesse nell’uso dell’elettronica e di tecniche di campionamento per creare atmosfere o stati d’animo ricchi di sfumature e risonanze. Penso anche che siamo tutti ispirati da musiche del passato e non elettroniche.

Ascoltando i tuoi dischi si percepisce un gusto distintivo nella scelta dei suoni, declinato in modi diversi a seconda del disco. Pensi di aver avuto cambiamenti importanti nella tecnica, nella strumentazione o nelle idee musicali dall’inizio della tua carriera? Oppure hai un set-up diverso per ogni progetto? Come posizioni il tuo lavoro rispetto agli assi analogico/digitale e composizione/improvvisazione?

Penso che le mie idee musicali di base non siano cambiate molto nel tempo. Ciò che è cambiato è che mi sono allontanato sempre più dalla struttura-canzone convenzionale o addirittura dalle strutture tout court. Sono perfettamente felice in questi giorni di fare musica che è statica e non ha sviluppo, mentre quando ero più giovane mi preoccupavo molto di fare arrangiamenti “interessanti”. Con il senno di poi, questo aveva più che qualcosa a che fare con il fatto che componevo musica al computer con Logic o Ableton Live, software che mi permettevano di determinare e gestire ogni minimo dettaglio di ogni suono ed evento. Negli ultimi 8-10 anni circa ho ripreso a utilizzare l’hardware (sintetizzatore modulare analogico/digitale) e ritengo che i suoi limiti e le possibilità di lavorare in questo modo siano stati per me molto fruttuosi. O perlomeno lavorare con l’hardware ha reso la composizione e la registrazione di nuovo piacevoli ed emozionanti. Mi ha anche permesso di improvvisare e comporre spontaneamente agendo sul (e reagendo al) sistema semi-autonomo che è il mio strumento.

Alcuni dei tuoi lavori “più concettuali” sono bellissimi, ad esempio The Prepaid Piano & Replayed e Phantom Islands: un pianoforte suonato con delle telefonate che innescano un sintetizzatore e un sito web costituito da mappe sonore di isole immaginarie che hanno portato alla scoperta di altre isole realmente esistenti. Sono due lavori diversi per molte ragioni, ma credo che condividano i temi della mutazione e dell’ibridazione e siano degli esempi di come manipolare gli scambi di informazioni e le loro conseguenze. Sei d’accordo? Cosa pensi delle installazioni musicali e della musica generativa?

Suppongo che in senso lato ciò che i miei progetti “più concettuali” hanno in comune siano le trasformazioni o dei “transfer” di qualche tipo. Con l’installazione “The Prepaid Piano” si è trattato del trasferimento e della trasformazione di energia attraverso diverse tecnologie (dal digitale all’elettromeccanico, all’acustico, all’analogico, all’acusmatico). Il tutto è stato impostato in modo da essere generativo e il pubblico si è divertito a essere parte attiva del processo (le persone chiamavano i cellulari che erano stati collocati all’interno dei pianoforti).
In generale mi interessano sia le installazioni che l’approccio generativo alla musica, essenzialmente tutto ciò che propone un paradigma di produzione e ricezione che vada al di là del modello convenzionale di “creatore umano attivo che esprime qualcosa direttamente attraverso il medium musicale per un ascoltatore passivo”. Ci sono altri modi interessanti, provocatori e divertenti di interagire con la musica che danno un ruolo creativo all’ascoltatore, alle macchine, al caso, alla natura, ai media, alle informazioni extra-musicali…

Nell’epoca dell’enorme quantità di dati raggiungibili in pochi secondi, c’è un crescente interesse per l’arte che inventa mondi fatti di elementi “reali” trasformati, decontestualizzati o richiamati in diverse maniere. Una via d’uscita verso una realtà inesplorata, come possono essere la versione di Mike Cooper della musica exotica/hawaiiana o i field recordings manipolati digitalmente di Kink Gong (che abbiamo ascoltato in un precedente appuntamento di “Forma – Free Music Impulse”). Ti piace pensare alla composizione di musica elettronica in termini di creazione di mondi sonori paralleli, come suggerisce il libro di David Toop “Ocean of sound”?

In effetti, quest’idea è molto vicina a come io penso la composizione di musica elettronica. Come detto sopra, mi interessa soprattutto costruire particolari atmosfere o stati d’animo che immergono l’ascoltatore in un mondo che viene evocato solo attraverso il suono. Quello che mi interessa è dare a questi mondi evocati un certo grado di verosimiglianza, nel senso che non possono essere semplicemente fantastici, devono avere qualcosa di “reale”.
Nei miei lavori più recenti (“Tristes Tropiques” o “Phantom Islands“) ho usato strumenti elettronici per produrre musica con suoni che possono essere scambiati quelli di insetti, richiami di uccelli, vento, onde e altri fenomeni sonori “naturali”, così come elementi che ricordano registrazioni etnografiche (anche se di nessuna cultura particolare). In definitiva, lo scenario ideale per me è quando un pezzo che ho realizzato può essere ascoltato contemporaneamente sia come una registrazione naturalistica, sia come una composizione completamente sintetica. Vorrei mettere l’ascoltatore in questo stato duale.

Hai suonato i sintetizzatori in “Freud’s Baby”, la lunga suite ambient/house/spoken word di Move D e Thomas Meinecke, un ibrido al confine tra arte concettuale e musica dance, come alcuni lavori di Thomas Brinkmann. Qual è il tuo rapporto con la musica dance elettronica? Trovi interessante lavorare con elementi che provengono da musiche come la techno o la house?

Mi sembra di aver trascorso gran parte della mia carriera finora lavorando in un campo adiacente alla techno e alla house, ma in realtà non ho una relazione diretta con la musica dance elettronica. Mi piace ascoltare alcune cose di quel mondo, ma non seguo molto attivamente i suoi sviluppi o frequento i club. Non ho nulla contro il godimento viscerale o sensuale della musica, ma trovo che l’edonismo programmato e l’omogeneità della musica proposta, due cose che sembrano essere la norma nei club qui a Berlino, siano più noiosi che eccitanti.

Quali sono le tue preferenze in termini di luoghi dove suonare (palcoscenici grandi/piccoli, singoli concerti/festival, piccole cittadine/grandi città, teatro/club)?

Ho un vero problema con il modello teatrale di presentazione musicale (performer su un palcoscenico rialzato, di fronte al pubblico). Penso che la separazione spaziale tra esecutore e pubblico (almeno nel contesto della musica elettronica) sia inelegante, sia da un punto di vista simbolico che pratico. Voglio che il pubblico possa vedere quello che sto facendo e, altrettanto importante, voglio sentire esattamente quello che il pubblico sta ascoltando (detesto i monitor di palco, che quasi mai forniscono una rappresentazione accurata del suono dell’amplificazione principale). Per questi motivi preferisco non suonare sul palco, ma in mezzo al pubblico.

Cosa presenti a Dobialab per “FORMA – Free Music Impulse” ? A cosa stai lavorando in questo momento?

A Dobialab per “FORMA – Free Music Impulse” presenterò la mia performance audiovisiva live in continua evoluzione (qui la versione presentata nel 2015 a Milano per Standards, ndr). Si tratta di musica composta spontaneamente, basata sull’interazione dell’elettronica con frammenti di suoni provenienti da insetti, uccelli e altri fenomeni acustici naturali. La musica è accompagnata da una proiezione video di flora tropicale astratta e modulata in tempo reale (un esempio qui).

Attualmente sto lavorando ad una versione da disco del progetto “Phantom Islands“.