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ANDREA DICÒ – FRANCESCO CARBONE, DC

ANDREA DICÒ FRANCESCO CARBONE, DC

Il didascalico fulmine nel cielo (fottuto e) sereno: questo cd del 2019, di cui pochi hanno sentito parlare, di cui pochi sentiranno parlare, non vuole saperne di uscire dal mio lettore. Un duo capace di migrazioni, vertigini, sbandamenti, mondi. Per quelle coincidenze cosmiche che ancora e sempre ci rapiscono nella musica, riescono a estrarre un’anima rara e luminosa da roba abbandonata e arrugginita. Andrea Dicò suona batteria, oggetti, walkie-talkie, vibratori e giocattoli a molla e si occupa dei campionamenti; Francesco Carbone, invece, traffica con lap steel guitar, chitarra elettrica, pedali, loop, carillon, radio, latta d’olio ed accordatore. Con questo armamentario, sull’asse Cape Town-Milano, imbastiscono una piccola e cocciuta meraviglia, come una pepita in una discarica. Proprio con l’elemento terra ha a che fare la prima traccia, “Ossidiana”, un raga urbano limpido e struggente, tra estasi minimalista e Americana; come il vetro vulcanico da cui prende il nome, il pezzo non si rapprende in un reticolo ordinato, ma è cristallino e liquido nel suo acquisire una forma che brilla di luce propria da ogni angolo la si guardi. Per chi se li ricorda, mi ha fatto venire in mente i grandi San Agustin (autori di dischi magnifici e magnetici per Table Of Elements un secolo fa) o le cose più orizzontali di uno dei loro chitarristi, David Daniell. Dieci minuti scarsi di cosmologia in scatola, una delle cose migliori ascoltate nel 2019, per davvero. Il resto non è meno interessante e curioso: “Rainingindesing” ipotizza una stramba via al glitch elettroacustico, tra free e riduzionismo, restando in un limbo indicibile dove tutto può essere e niente è. Poi arriva il drone arrugginito e scabro di “Tralfamadore”, come i suoni della archeo fantascienza di “Forbidden Planet”, la mitologica pellicola del 1956: l’alieno è dentro di noi, e la paura può essere sensuale come il silenzio degli Einstürzende Neubauten. Se “Il Sogno Di Giulio” inizia come un imprendibile blues, sghembo come se Ali Farka Tourè avesse incontrato Derek Bailey, l’Africa che appare poi in lontananza si rivela come visione; un ottimo lavoro timbrico delle percussioni ed un sapiente gioco di costruzione dei loop creano un intrico fitto e lievissimo in cui perdersi è una droga senza controindicazioni. I Gastr Del Sol non sono così lontani, e scusate se è poco. Forse proprio la fantasia sfrenata dei giorni d’oro di Jim O’Rourke e David Grubbs, mondata della componente folk, è il referente più prossimo di un lavoro che sa inventare una lingua utilizzando quattro carabattole recuperate nello sgabuzzino. Con “14b” uno pensa di andare un momento in cantina a prendere la cassetta degli attrezzi per riparare quella porta che cigola e si ritrova in orbita senza nemmeno aver capito come. Fulcro del disco è comunque la torrenziale (oltre ventidue minuti) “Intergalactic Mechanical Workshop”, che parte sommessa in fonderia, o nella fucina di Efesto, per poi gettarsi a capofitto in una selva abstract free noise (My Cat Is An Alien chi?) tra satori e bagliori di supernova, in un viaggio cosmico e domestico che ha la furia selvatica dell’impro meno algida e la poesia bieca del rumore più nitido e vero, perché spontaneo e senza pose. Immaginatevi Sun Ra strapazzato dentro una centrifuga Dead C, e ci siete, ci sono, ci siamo. Un oggetto quasi, come dicevano José Saramago e i Matmos, indefinibile: quasi rock, quasi noise, quasi impro, che fa dell’approssimazione per difetto e di un’imprevedibilità suicida e cocciuta il proprio codice, informato di un vaghissimo mood jazz. Semplicemente suoni liberi che raccontano storie, senza personaggi. Non tutti i ventidue minuti della traccia inevitabilmente sono imprescindibili, ma provateci voi ad avere lo stesso coraggio e la stessa incoscienza. Recupero doveroso, dunque, speriamo di ascoltare un seguito, o di non ascoltarlo e restare con questo oggetto misterioso, caduto dallo spazio ed atterrato sulle nostre teste distratte in quest’epoca allagata e allucinata male.