Andrea Centazzo: non chiamatelo batterista
Come da consuetudine, basterebbe elencare alcune delle sue ormai storiche collaborazioni per rendersi conto della statura artistica del percussionista e compositore Andrea Centazzo: spuntano i nomi di Don Cherry, Steve Lacy, Evan Parker, Guido Mazzon, Alvin Curran, Derek Bailey, John Zorn e via di questo passo, da collocare accanto a figure inizialmente decisive, come il percussionista Pierre Favre, il giornalista e scrittore Franco Fayenz e il compositore Giorgio Gaslini. Ma è impresa assai ardua quella di concentrare negli spazi di un articolo la carriera di un artista che, negli ultimi quarant’anni abbondanti, ha dapprima scritto pagine importanti del free jazz più o meno radicale, per poi tramutarsi in compositore a tutto tondo, regista e artista multimediale. E sempre a cavallo tra tante cose: neo-avanguardie ed “origini” orientali, elettronica, formazioni cameristiche, colonne sonore e commissioni di ogni genere.
Andrea Centazzo, com’è forse ovvio, vive lontano dall’Italia dal 1991. Sta a Los Angeles ma ogni tanto, per fortuna, capita che torni a suonare da queste parti. Sarà così il prossimo 5 luglio, quando il Teatro Out Off di Milano ospiterà l’unica data del nuovo trio TRIGONOS, che Centazzo condivide con Giancarlo Schiaffini, trombonista padre del free jazz europeo, e con il vibrafonista e compositore Sergio Armaroli. Di questo e di altro ancora (i più attenti avranno letto anche da altre parti di certe sue vicende: è quasi inevitabile raccontare ogni volta aneddoti del genere) ci ha parlato Centazzo nell’intervista che segue, una sorta di riassunto a tappe della sua carriera condito da critiche pungenti e ricordi dei bei tempi andati, ovverosia di quando il jazz italiano aveva una forte connotazione politica e in giro capitava di incontrare musicisti che dire straordinari è dire poco. Ma attenzione: sono ricordi sviscerati a suon di rabbia, e non di sterile nostalgia.
Ha suonato con tantissimi artisti, pubblicato una mole imponente di dischi e lavori di vario genere, esplorato senza confini e ibridato la musica con altri media. Per dirla con Frank Zappa, “la musica è il meglio”, vero?
Andrea Centazzo: Mah… Ognuno vede la propria attività come essenziale, ma non mi chiuderei di certo in un’autocelebrazione dicendo che la musica è il meglio. La musica ha giocato un ruolo fondamentale nella storia dell’umanità. Da mezzo di comunicazione a forma celebrativa sacrale a semplice momento di intrattenimento e socializzazione, l’evoluzione della forma l’ha portata fino ai nostri giorni come strumento insostituibile per “vivere meglio”. La musica nella società contemporanea è comunque condizionata e guidata da esigenze che non sono più principalmente artistiche, ma commerciali, come tutta l’arte d’altronde. Oggi si vende tutto, dall’avanguardia fino al bieco pop. C’è un mercato per tutto, anche se negli ultimi decenni il moltiplicarsi delle proposte e dei generi ha ammazzato le forme di ricerca e di sperimentazione. Internet ha ucciso la curiosità e il “De Profundis” è suonato quando la musica ha incominciato ad essere considerata “quella roba là” che si può scaricare gratis; tanto chi se ne frega della sopravvivenza degli artisti? Io ho fatto di un certo tipo di musica il corpo centrale della mia attività artistica. Chiaramente ho sofferto per questi cambi dell’ultimo decennio, ma non mi sono arreso e continuo a fare quel che mi pare. La libertà ha un prezzo e certe volte, soprattutto in tarda età, ha un prezzo abbastanza alto.
Con la sua etichetta Ictus attua un lavoro di collezione e ri-collezione; un’archiviazione e un recupero costanti del suo imponente corpus (non solo) discografico. Anche il Fondo Andrea Centazzo istituito dal DAMS di Bologna opera in questi termini?
No, il Fondo e Archivio Andrea Centazzo ha tutt’altra funzione. Nasce da una donazione di tutta la mia biblioteca d’arte (non solo musica, ma anche arti plastiche e cinema, le due altre forme espressive con cui mi sono confrontato), fatta quando decisi di chiudere la mia casa di Bologna nel 2012. Mi ero trasferito a Los Angeles nel 1991 con un contratto di esclusiva con la Warner Chappell come compositore (all’epoca soprattutto di colonne sonore), ma avevo tenuto il casolare nella campagna emiliana in cui appunto vivevo prima del trasferimento e in cui custodivo una collezione di libri, dischi e strumenti musicali (quest’ultima donata al Museo della Musica e delle Percussioni di Pistoia). Con la chiusura di quel mio piccolo personale paradiso dispersi tutto quel che avevo in direzioni diverse. Il DAMS, nell’accettare la donazione, mi chiese anche di avere tutte le mie opere musicali e non, per procedere a una catalogazione che sarà finita al termine di quest’anno. In Italia rimane il mito di un Centazzo batterista, quando invece dopo studi di composizione con Bussotti e Gentilucci dal 1990 avevo smesso di suonare e mi ero dedicato completamente alla composizione, alla regia e alla multimedialità. La moribonda Ictus invece pubblica e ripubblica qualsiasi cosa il mio ghiribizzo del momento suggerisca: qui non c’è metodo ma solo ispirazione. Se una cosa mi piace, la pubblico, altrimenti la cestino. E siccome oggi non si vendono più cd e il pubblicare costa, diventa veramente solo una questione di disordinata archiviazione delle cose più varie.
In effetti ci sono vecchi dischi – se non erro – non più ristampati, come Fragmentos del 1975, il suo primo disco per sole percussioni, che meriterebbero di essere riascoltati oggi e, magari, da orecchie nuove…
Fragmentos è stato pubblicato in un doppio cd alcuni anni fa assieme ad altri lavori di percussione. Il fatto è che non avendo una distribuzione in Europa, non essendoci quasi più negozi di dischi e non guadagnandoci niente (e quindi dovendo fare tutto da solo), molta parte della produzione resta ignota ai più, non essendoci promozione. È per questo che il Fondo Centazzo diventa per me importantissimo, in quanto preserverà il mio lavoro a futura memoria.
Come ricordava poco fa, in Italia c’è questo mito del Centazzo batterista, ma lei non è neanche soltanto un musicista e compositore: lo dimostrano le esperienze in ambito multimediale. Cosa ha aggiunto tutto questo alla sua musica?
Non sono mai stato un batterista, in effetti, eccetto forse nella mia prima fase con Gaslini (1972-1976). Ma anche lì la ricerca coloristica sopravanzava la tecnica batteristica. Lo scopo della batteria è quello di essere un “piacevole” metronomo umano per le musiche che necessitano di una pulsazione esplicita. Non mi ricordo di aver mai tenuto il tempo neanche in quegli anni per più di 20 misure (ride, ndr). La mia vita è sempre stata molto legata a fattori come creatività e poca tecnica, e anche sulla percussione non mi sono mai ritenuto un virtuoso: ho sempre pensato che quello che faccio ha un senso perché ha una struttura. Sono uno che compone le cose e poi le suona, e anche quando improvviso ho sempre dei riferimenti molto precisi, non faccio parte della musica aleatoria, tanto che poi alla fine degli anni Ottanta ho abbandonato l’avanguardia e mi sono messo a fare musiche strettamente strutturate e anche melodiche.
Mi sono sempre considerato un compositore che suona le percussioni: anche quando mi dedicavo all’improvvisazione pura (post Gaslini) in verità lavoravo contemporaneamente nel mio studio su composizioni studiatissime e super rifinite di percussione (vedi il triplo Premio della Critica Italiana, il disco Indian Tapes) e con la Andrea Centazzo Mitteleuropa Orchestra lavoravo su composizioni e strutture per l’improvvisazione guidata. Nel 1985, con il Concerto per Piccola Orchestra Omaggi a Pasolini, l’improvvisazione sparì dal mio lavoro compositivo orchestrale lasciando solo una musica definita in tutti i suoi particolari. In quegli anni iniziai ad esporre in galleria d’arte le mie partiture grafiche, che in una fase successiva, con l’intervento del colore e l’uso di materiali poveri, divennero ipso facto lavori d’arte visiva. Nel 1984, dopo aver scoperto il video, mi dedicai al video-making e fino al 1990 divenne quasi la mia attività principale con diverse commissioni per la Rai, come la serie Artisti in Musica presentata dall’indimenticabile Gillo Dorfles. Il periodo 1990-1998, in cui non toccai neanche una volta gli strumenti (quando mi trasferii a Los Angeles volutamente ci andai senza neanche uno dei miei pentolini), permise alla tecnologia di evolversi e quando ripresi ad esibirmi come percussionista solista, il multimedia divenne possibile senza costosi apparati e interventi di tecnici invasivi. Oggi è la mia attività principale.
Non si può considerare tutto ciò come una aggiunta alla musica, ma piuttosto come uno sviluppo di una plurima forma d’arte. Un giornalista americano ha avuto la bontà di paragonarmi a un artista rinascimentale chiamandomi “Renaissance Man” e citando Leonardo (cosa di cui ovviamente mi vergogno!). Ma trovo che, in una epoca di specializzazioni ossessive, la mia posizione “di tutto un po’” possa avere una connotazione simile. Certo, come dicevo prima, nella società contemporanea il mercato con le sue etichette ti marchia a fuoco; quindi, soprattutto in Italia, batterista son nato e batterista devo morire… Un aneddoto: quando ho avuto la commissione per scrivere l’opera lirica Simultas sulla storia di Bologna al Teatro Comunale per “Bologna 2000, Capitale Europea della Cultura”, che è stato uno dei cinque progetti che ho fatto in Italia in venticinque anni (tre opere, il requiem per orchestra e lo spettacolo coi Balinesi, che è stato una cosa meravigliosa), il presidente di Bologna 2000 mi disse: “vai al Teatro Comunale a parlare col direttore artistico, perché devi metterti d’accordo con lui per le prove, bla bla bla”. Ci andai e c’era questo tizio, di quelli che proprio si sentono “io sono io e tu non sei un cazzo”, come il Marchese del Grillo. Mi presentai, questo mi guardò con gli occhi sbarrati e fece: “Centazzo, ma io mi ricordavo di un batterista jazz”, e io “sì, quello è mio cugino. Io faccio il compositore, lei non mi conosce perché vivo in America”. “Ah, allora parliamo”. È così. Perché non c’è l’accettazione dell’altro.
A questo punto non riesco a non pensare al suo primo film “Tiare” (per musica e immagini statiche o in movimento girate tra Udine e Maniago, la sua terra natia), che risale già al 1985 e che, mi par di capire, rappresenta uno spartiacque nella sua carriera. L’ho visto di recente ed è davvero una sorta di documentario allucinato e onirico…
In effetti, come detto precedentemente, la realizzazione di “Tiare” mi aprì un mondo espressivo nuovo e mi portò molta fortuna. Vinse praticamente tutti i festival dell’epoca e fu trasmesso da molte emittenti in Europa e Giappone. La cosa divertente è che nacque perché non riuscivo a penetrare il mondo di gomma del cinema per fare delle colonne sonore. A quel punto dissi: “ma perché il film non me lo faccio io???” e, facendo un sacco di debiti (all’epoca l’attrezzatura video più modesta costava come una Maserati), iniziai la mia avventura. Fu un rischio non indifferente per via della mia totale ignoranza di tecnica, di ripresa e montaggio. Ma anche qui usai la creatività e l’ispirazione… Chi non risica non rosica, e in quel caso ne valse la pena.
Ai suoi tempi il jazz meno formale era una musica di protesta, anche in Italia…
Io direi soprattutto in Italia. I miti della rivoluzione afroamericana fatta con il free jazz non sono mai stati analizzati nella loro reale dimensione. Il danno fatto dal libro Free Jazz / Black Power (di Jean-Louis Comolli e Philippe Carles, 1971, ndr) sulle generazioni di appassionati di allora è stato incalcolabile. Una teorizzazione di un fenomeno mai esistito se non in forme minori. In Italia, invece, il jazz come musica politica era un fenomeno di massa. Ci sono stati vari elementi di provocazione artistica, che magari noi facevamo in un senso, e John Cage e/o Fluxus faceva in un altro: tutti i musicisti dell’epoca che facevano musica di rottura erano orientati politicamente. C’erano gli estremisti come Cornelius Cardew, oppure quelli furbi come Giorgio Gaslini, però tutti comunque guardavamo al pubblico della sinistra. E il pubblico della sinistra all’epoca veniva in massa a questi concerti. Poi magari andavano a casa e ascoltavano Claudio Baglioni, ma questo non voleva dire niente. Era anche un fatto di solidarietà andare a questi concerti: faceva parte dell’essere compagni. Poi magari pensavano: “basta! quando finiscono, ché non se ne può più?”, però nessuno lo diceva perché noi rappresentavamo la rivoluzione.
C’erano anche un sacco di equivoci all’epoca e un sacco di furbizie, però insomma… Io purtroppo ero uno di quelli che ci credeva fermamente e difatti mi son ridotto in queste condizioni! Nel senso che a 70 anni sono ancora in giro per il mondo a battere i pentolini, mentre tutti quelli che non ci credevano, o che facevano finta di crederci, adesso sono piazzatissimi con pensioni o stipendi d’oro. Mi ricordo un episodio degli anni Novanta, quando venni a Milano non so per quale progetto, comunque di musica ormai molto standard, e andai a parlare all’assessorato alla provincia. Il direttore era uno che all’epoca era stato un ultra-maoista, che alla Statale un giorno mi aveva accusato di essere solipsista perché avevo fatto un disco da solo! E questo qui era diventato guarda caso socialista della Milano da bere, ed era inciuciato con Craxi eccetera. Io son sempre stato uno che ha fatto quel che ha detto e ha detto quel che ha fatto. E difatti ho sessantasette anni, continuo a fare entusiasticamente questo lavoro, non ho avuto la pensione in Italia perché tutti quelli che dovevano versare i contributi non li hanno mai versati, e avanti di questo passo. All’epoca il mio motto era: “la rivoluzione non si fa in do maggiore”, e in questo credevamo. Cercavamo di cambiare la società cambiando anche il linguaggio della musica.
Restiamo suppergiù in quegli anni. Tra i suoi mentori, oltre ai vari Pierre Favre e Giorgio Gaslini, c’è Steve Lacy. Ci tengo a parlarne, perché ammetto di aver conosciuto la sua musica proprio grazie al Maestro del sax soprano; in particolare grazie a Clangs, il vostro disco live in duo del 1976. Cosa ricorda di questo musicista fuori dal comune?
Posso solo dire che Lacy è stato quello che ha squarciato il velo, come si suole dire, quando alla prima prova ad un giovane percussionista preoccupato di come rapportarsi con il suo idolo disse: “play what you feel”! In ogni caso un uomo chiuso in quegli anni, ma con una generosità artistica sorprendente. Un uomo, comunque, che ha avuto diversi problemi per le sue dipendenze e che, alla fin fine, non ha mai goduto appieno (finanziariamente) del suo immenso talento. Quando poi alla fine della sua carriera riuscì ad aver un posto fisso al conservatorio di Boston, ne godette per pochi anni tradito da un fegato di cui aveva abusato per tutta la vita.
Ma “play what you feel” è anche ciò che Cecil Taylor (o forse era Thelonious Monk?) disse ad un giovane Lacy (cfr. “Conversazioni con Steve Lacy”, Jason Weiss, 2006). Insomma, le “buone maniere” si tramandano?
Jason mi disse di questa conversazione con Steve alcuni anni fa, quando stava preparando il libro. E rimase stupito appunto che poi Steve l’avesse riusata con me (e probabilmente con molti altri). La mia collaborazione con Steve fu breve ma estremamente importante. Ci sono oggi sei cd Ictus a dimostrarlo (due in duo, quattro in trio con Kent Carter).
Lacy, a suo modo, ovverosia anzitutto con i fatti e poi con le parole, è stato anche un teorico dell’improvvisazione. E diceva che senza limiti non esiste libertà…
Su Lacy dopo morto si sono scritte e dette troppe cose. Sarebbe stato bello che si fossero fatte delle cose per dare a questo uomo la possibilità di una vita agiata. Ma tant’è… Comunque, Steve non si è mai considerato appartenente all’area dell’improvvisazione radicale, piuttosto basava la sua musica su composizioni, per lo più geniali melodie, da cui poi traeva linfa per l’improvvisazione.
In un’intervista risalente al 2013 ho letto che lei considerava gli USA un Paese sì contraddittorio, ma ancora “stimolante e pieno di opportunità”. Sono passati cinque anni e sono cambiate un po’ di cose, oggi cosa ci dice in proposito?
Certo la vittoria di Trump ha complicato la vita americana in molti aspetti. Devo dire che in USA ci sono pochissime possibilità per la musica creativa. Solo John Zorn e pochi altri (ma parliamo di dieci nomi) vivono di concerti. Tutti hanno altri mestieri. Chi insegna, chi fa il bibliotecario, chi l’assistente alle vendite. Io ero andato a Los Angeles per fare colonne sonore, ma all’inizio eventi di natura personale (orridi divorzi, manager – ancora femmine – che mi minacciarono con coltelli acuminati, ecc.) mi direzionarono su un’altra strada. E cosi mi dedicai alla composizione pura con rare anche se proficue incursioni nel mondo del cinema.
In effetti ci sono alcuni miei lavori compositivi su cd che preferisco e che secondo me sarebbero quelli da portare sull’isola deserta: The Heart Of Wax, musiche fatte per un balletto, l’opera Tina, su Tina Modotti, che si fece in Italia con Ottavia Piccolo e in America con questa straordinaria attrice messicana di nome Lumi Cavazos, che è quella che aveva fatto “Come l’acqua per il cioccolato” di Arau. E poi The Shadow and The silence, l’omaggio a Pier Paolo Pasolini, Primo Concerto per Piccola Orchestra e il terzo omaggio orchestrale a Pasolini, Rain on the borders.
Non voglio ovviamente dimenticare Indian Tapes e altri dischi di improvvisazione e orchestrali, ma quei lavori lì concentrano un po’ tutto il risultato di un percorso. Perché naturalmente lì c’è la purezza della composizione, perché comunque dove io suono intervengo come esecutore, e quindi altero in tempo reale quello che scrivo. Invece quando dirigo un gruppo di dieci o cinquanta persone, quelle suonano, e devono suonare quello che sta scritto.
Ogni tanto, anche se di rado, torna in Italia a suonare. Purtroppo non potrò essere a Milano al Teatro Out Off, ma intanto la ringrazio per aver accettato di rispondere alle nostre curiosità. Dunque, suonerà in trio con Sergio Armaroli e Giancarlo Schiaffini; ce ne parla?
Il trio nasce da un invito di Sergio a registrare un cd lo scorso dicembre. Il cd che ho poi mixato a Los Angeles è una delle cose migliori di improvvisazione che abbia fatto ultimamente. Sergio è veramente un eccellente musicista e una persona squisita, ed è stato un vero piacere condividere con lui questa nuova avventura artistica. Con Giancarlo abbiamo una storia che è iniziata nel 1977! Poi, dopo una collaborazione attiva durata cinque anni, ci siamo persi di vista. Nel 2012, quando John Zorn mi offrì di fare un festival a New York per la celebrazione dell’anniversario della Ictus (35 anni), lo ricontattai e si risuonò insieme. Poi lo invitai nuovamente ad aggiungersi al mio trio Volcano Radar a Chicago e quest’anno abbiamo fatto una bellissima tournee in duo in Messico e Guatemala. Incredibile come in questi paesi ancora oggi si possa suonare in duo musica improvvisata davanti a quasi 3000 persone, come da noi negli anni Settanta. Là c’è una curiosità per il diverso che qui è bella che defunta.
Spero che il progetto Trigonos continui ad esistere, essendo una ventata di aria fresca nel panorama della stantia musica improvvisata. E di questo ringrazio ancora l’amico Sergio per averci creduto e investito energie.