Andrea Cauduro, avanguardia del primordiale
Uno dei dischi inattesi di questo inizio 2023 è quello più o meno torinese di Andrea Cauduro su Delete Recordings, registrato presso OFF Studio con Paul Beauchamp (col quale Cauduro aveva già messo in piedi un disco a tre) e oggetto del mastering di Marco Milanesio. Partendo da chitarre (acustiche, principalmente), organo ed effetti, senza voce ma con un po’ di aiuti di qualche amico (l’eccezionale intervento al violino di Giulia Subba, se dovessi scegliere) Cauduro mette in scena un Altroquando, più irrazionale (è ancora possibile?) e magico della nostra realtà. È vero infatti che il suo modo libero di suonare la chitarra può essere ricollegato – come dice lui – a Robbie Basho e Ben Chasny, proprio perché sotto si sente appunto una sorta di primitivismo. E questo agire senza vincoli, fuso coi vari bordoni ottenuti con gli strumenti più diversi, dà proprio l’idea di ascoltare qualcosa di sciamanico e preternaturale. Un ottimo modo per togliersi di mezzo dal mondo per un po’. Siccome è giusto sostenere l’underground ed è doveroso approfondire quando il disco è così bello ma lo capisci fino a un certo punto, ecco l’intervista ad Andrea Cauduro.
Le tue “bio” aprono sempre coi tuoi studi al Conservatorio. Ho fatto questa domanda anche a François J. Bonnet, che dirige il francese GRM ma suona con Stephen O’Malley: che ne pensi in generale di tutto questo mondo DIY con cui collabori? Il fatto che tu abbia scritto la tesi su John Zorn dovrebbe già dirmi qualcosa, credo…
Andrea Cauduro: Se penso all’aspetto puramente estetico della musica che mi interessa, non ho mai trovato grandi differenze tra un certo mondo underground e la musica “colta” del secondo Novecento, sia in termini di approccio e ricerca che di risultato sonoro vero e proprio. In ambito chitarristico penso a nomi come Sergio Sorrentino, Stefano Pilia o Alessandra Novaga. Credo ci sia un filo che collega mondi che sono distanti solo in apparenza in cui mi sono sempre trovato ugualmente a mio agio.
Nel mio periodo di formazione accademica ho scoperto luoghi come il DalVerme a Roma, dove mi capitava di ascoltare cose simili a quelle che imparavo in conservatorio studiando musica contemporanea.
Credo che la curiosità e un certo approccio ludico alla materia sonora siano qualcosa di imprescindibile per me, al fine di costruire (o decostruire a seconda dei periodi) un mio personale immaginario sonoro. In questo senso il mondo DIY mi ha aiutato molto ad ampliare le possibilità datemi dal percorso accademico.
Collegata alla prima domanda: non sei di Torino, mi pare, ma ci sei venuto ad abitare e ci hai trovato qualcuno con cui fare dischi. Da quelle parti, anche oggi, c’è tanta roba: si va dai Larsen ai Tons, passando per Paul Beauchamp, Saba Saba, Ramon Moro e mille altre cose. Ti va di parlarmene dal tuo punto di vista?
Per me è fondamentale trovare un collegamento anche da vista umano rispetto al mio percorso musicale. Ho conosciuto nel 2016 Paolo Spaccamonti aprendo un suo concerto grazie alla mitica Claudia Acciarino, una figura che manca tremendamente, e non solo alla scena romana. Col tempo siamo rimasti in contatto fino a diventare amici e quando ho deciso di trasferirmi a Torino mi ha presentato Ramon Moro, Fabrizio Modenese Palumbo, Dano Battocchio e soprattutto Paul Beauchamp, con cui ho condiviso tanta musica e molto del mio percorso nell’ultimo periodo, realizzando anche un disco in trio con lui e Michele Anelli (Sometimes Someone Watches / Chiærichetti Æditore 2022). Precedentemente, un attimo prima del lockdown, ho realizzato Textures (ep, Superbudda 2020) insieme a Anything Pointless (Pietro Cavassa). Sono veramente grato di poter considerare tutti questi musicisti come amici e fratelli maggiori.
Non che l’umanità abbia avuto tante epoche d’oro ma – come dicono i Bachi Da Pietra in “Black Metal il mio Folk” – “settant’anni di pace e ci pareva merda”: due anni di pandemia e ora un mezzo coinvolgimento in una guerra. Il titolo del tuo disco, però, è ottimista. È legato a ciò che accade nel mondo o a vicende personali?
Il titolo è legato al mio personale modo di vedere cosa accade nel mondo. Dal mio punto di vista non è qualcosa di strettamente ottimista, credo rifletta più il mio bisogno di bilanciare realismo e disincanto con una tendenza all’evasione e alla ricerca di qualcosa di magico, sfuggente e irreale.
Sicuramente i due anni di pandemia, che ho vissuto da solo scoprendo una città nuova, hanno influenzato il mio modo di vedere le cose, come per tutti, ma questa tendenza di cui parlo è qualcosa che mi porto dietro fin da piccolo.
Tracce di Jung e Kafka nei titoli pezzi. Sono associazioni di idee che arrivano dopo oppure sei uno di quelli che si lascia ispirare da libri, film, quadri?
Mi fa molto piacere rispondere a questa domanda, mi piace dare i titoli alle mie composizioni dopo, quando tutto a livello sonoro è già compiuto. E mi stupisco perché poi spesso ritrovo una coerenza nelle associazioni di idee cui mi porta la musica.
Trovo molto stimolante comporre qualcosa lasciandomi suggestionare da altre forme artistiche, ma è qualcosa che ritrovo di più quando mi capita di lavorare a musiche per teatro, ad esempio.
In generale mi piace mantenere un aspetto spontaneo nelle mie composizioni pure, e in questo senso non mi viene naturale lasciarmi ispirare da altro, credo mi distolga troppo dal suono in sé.
È vero che It’s Always Darkest Before The Dawn suona “ancestrale”, come scrive il comunicato stampa, ma non so spiegare perché. Forse è il modo in cui suoni la chitarra acustica, ma non ne sono sicuro… Qual è il trucco?
Mi piace parlare di “trucchi”, nella composizione e soprattutto nell’arrangiamento dei brani ho utilizzato procedimenti tipici della musica antica (melodie a specchio, retrograde…). Probabilmente il sapore ancestrale di certi aspetti della musica riguarda più il modo in cui è organizzata; non tanto il materiale sono in sé, quanto più il processo che porta a far emergere delle cellule melodiche partendo da un drone ad esempio.
Non so se mi fa onore ammetterlo, ma è la prima traccia “The Dance Of Restless Souls” ad avermi tirato dentro al disco e ad avermici fatto tornare su, pensando se ci potevo costruire intorno qualcosa. Ti va di parlarmi della sua genesi o di raccontarmi qualcosa legato ad essa?
Ho composto quel brano in due momenti diversi: all’inizio era un solo di chitarra, con una sua melodia e un carattere ben preciso, è stato uno dei primi che ho registrato. Quando avevo quasi terminato il disco, più lo riascoltavo e più la chitarra mi suggeriva anche un’altra melodia, un controsoggetto in risposta al tema, così ho scritto delle brevi cellule melodiche che Giulia Subba ha interpretato in maniera fantastica al violino. Ha registrato queste brevi parti e poi io ho ricomposto il tutto editando le parti di violino. La parte di violino calmiera molto l’inquietudine della chitarra, il modo di suonare di Giulia è stato molto utile in questo senso.
Ambient, chitarra, chitarra in chiave atmosferica. Tanto il materiale che gira intorno a queste cose in questi anni. Ciononostante avrò un po’ di difficoltà a scrivere di questo disco andando per raffronti (il miglior modo per far capire al volo a chi mi legge di cosa si parla). Dammi qualche indizio su qualche nume tutelare di It’s Always Darkest Before The Dawn, per favore.
Per quanto riguarda l’ambient sono molto tradizionalista, sento sempre il bisogno di esplorare i concetti estetici di Brian Eno, oltre alla sua produzione più recente (The Ship, Reflection): sono stati sicuramente fonte di ispirazione non tanto per il sound quanto più per l’approccio compositivo.
A livello metodologico ho cercato di far miei degli aspetti della musica di Oren Ambarchi e i dischi in solo di Jim O’Rourke per il modo in cui il minimalismo sfocia quasi nella forma canzone.
Chitarristicamente mi piace molto la visionarietà di Ben Chasny e Robbie Basho, anche se dal punto di vista tecnico mi piace e mi incuriosisce molto farmi ispirare e cercare di riportare sulla chitarra idee concetti e tecniche di altri strumenti, penso a Colin Stetson o Nils Frahm.
Per il resto nel periodo in cui ho lavorato al disco, ascoltavo molta musica diversa ma sempre carica di basse, la Patetica di Tchaikovsky, Mahler, la musica vocale di Thomas Tallis, tanta dub di Kevin Martin (The Bug). Mondi diversi di cui mi piace il modo in cui vengono presentate queste grandi masse sonore molto scure e penetranti.
Riuscirai a portare dal vivo questo lavoro? Ti farai aiutare sul palco o proverai da solo? Hai pensato a visuals?
Non ho pensato a visual, sono molto curioso verso quel mondo e mi piacerebbe piuttosto scrivere della musica da zero pensata appositamente, mi piace lo scambio per cui troverei più interessante sviluppare delle cose in questo senso per collaborazioni future.
Presenterò il disco il 27 gennaio all’Imbarchino del Valentino (evento già avvenuto al momento della pubblicazione dell’intervista, ndr), con me ci sarà Michele Anelli al contrabasso e pedali, in apertura un dj set ambient di Paul Beauchamp e a seguire di Ramon Moro.
Mi piacerebbe presentare il disco in varie forme, è stato scritto e pensato per un piccolo ensemble con archi e percussioni, ma mi stimola molto anche l’idea di ripensarlo tutto come un solo di chitarra.
Mi piace dare forma diversa e scolpire il materiale sonoro a seconda dei contesti e delle possibilità.