ANDREA BELFI, Eternally Frozen
Belfi è uno di quelli che in tempi recenti ci piaceva chiamare batterista espanso, un musicista capace di estendere attraverso la tecnologia le potenzialità del proprio strumento in lavori che finiscono per eludere la natura eminentemente ritmica delle percussioni in favore di espressioni più complesse e stratificate: con questo ultimo disco, appena pubblicato da Maple Death, Andrea accantona – almeno in parte – il suo status di percussionista ipertrofico, per assumere le vesti di compositore. Tutto è subito chiaro fin dal primo brano, in cui le percussioni sono assenti e gli interventi di elettronica si riducono a poche leccate: il centro della scena è riservato a un terzetto di ottoni (corno francese, tuba e trombone) e sarà così per tutta la durata di Eternally Frozen. Interessanti le sovrapposizioni fra i tre fiati e la capacità di questi di creare melodie, intrecci armonici e bordoni. L’album – spiegano le note – è una raccolta di canoni, ossia composizioni in cui si ripete una melodia a intervalli regolari: capirete come tutto ciò possa risultare spiazzante in quello che – solo sulla carta – dovrebbe essere un disco di batteria. Il tema del disco è il mito del Deprong Mori, un pipistrello sudamericano che pare abbia la capacità di passare attraverso le pareti. Fra le ispirazioni musicali Belfi cita – oltre a Moondog (per lui una specie di nume tutelare al quale aveva dedicato già un disco con gli Hobocombo) – Arthur Russell, Miles Davis, Basinski e – molto più evidenti – Morricone ed Egisto Macchi: io ci sento dentro anche parecchio Jon Hassell, più nella capacità di costruire determinate atmosfere che nell’effettivo dipanarsi dei brani che, lontano da qualsivoglia ambizione free, suonano invece come il frutto di un lavoro rigoroso di composizione. Le percussioni entrano in scena solo dal secondo brano e presentano gli stilemi tipici di Belfi, il sibilo incessante dei piatti e quell’andatura al piccolo trotto che odora di Maghreb, il tutto con una fluidità che fa amalgama con gli ottoni suonati da Robin Hayward, Henrik Munkeby Nørstebø ed Elena Kakaliagou, già collaboratori di Eliane Radigue, Phill Niblock ed Ellen Arkbro, tutti nomi ai quali con questo lavoro Andrea Belfi si approssima idealmente.