Ancora su Julmud e Palestina
Nota della redazione: aggiungiamo le riflessioni di Toni De Martino a quelle di Angelo Borelli. Per una volta non fa male.
Mentre l’orrore in Ucraina incombe senza tregua, nel resto del mondo i vari teatri di guerra non sono scomparsi: ecco che a testimoniarne uno dei più “longevi” arriva Julmud, musicista/produttore palestinese, già attivo da anni, che firma con Tuqoos il primo disco a suo nome, pubblicato dall’etichetta Bilna’es, nata nel 2020 a Ramallah.
Se l’hip hop di “Falnukmel” sembra dare intenzione predominante a Tuqoos, approfondendo l’ascolto ci si rende conto che siamo vicini all’elettronica sperimentale di artisti come, solo per fare un nome, l’indimenticabile Bryn Jones/Muslimgauze: è, lo confesso, una gran bella rivelazione. Ci troviamo di fronte certo a temi drammatici e controversi, siamo pur sempre in mezzo ad un’ occupazione militare con musicisti costretti da sempre a suonare, lavorare in una realtà – oltre che violenta – complicata da territori divisi, da muri alti otto metri e checkpoint dell’esercito israeliano che impediscono gli spostamenti, dunque incontriamo pezzi che testimoniano le vicende dell’area sotto sfratto di Sheikh Jarrah, ad esempio “Mawlana”, che contiene registrazioni sul campo di slogan e manifestazioni popolari tra le sirene della polizia, e “Harti” (“il mio quartiere”), che riflette l’amarezza di non poter vivere una quotidianità “normale”. Con “Haras El Jabal”, però, ci spostiamo anche in ambiti di un’elettronica disincantata e visionaria, altrettanto nella dondolante nenia araba di “Marhale A’La” e l’epifania di “Taghyeer Thabet”, dove l’onda lunga, psichedelica di Muslimgauze è palese e ci fa ben comprendere il background estetico di Julmud. “Ur”, infine, con un canto estatico e gli arpeggi di un oud (il liuto arabo) appare una sorta di commiato pacificato tanto illusorio quanto voluto!
Combinare elettronica, hip hop sofisticato e suoni arabi tradizionali, più precisamente palestinesi, fa di Tuqoos una fusione tanto politica in modo esplicito quanto originale e accattivante a livello musicale. “Abbiamo” combinato tanti disastri con il web (dalle fake-news all’enfatizzazione di fenomeni fino a pochi anni fa irrilevanti e a un tragico analfabetismo di ritorno), ma da questo media traggono evidente beneficio i musicisti di aree cosiddette periferiche o di guerra, riparati in studi di registrazione sotterranei per sfuggire ai bombardamenti, come di recente sottolineavamo parlando della raccolta Sounds Of Survival From Ukrainian Underground, perché hanno oggi la chance di diffondere e far ascoltare la loro musica, una straordinaria opportunità solo pochi anni fa inesistente.
Se da un lato questo esordio a proprio nome di Jalmud ci permette di accogliere tutto il desiderio di ribellione allo status quo che proviene dai territori occupati della Cisgiordania, dall’altro è una testimonianza – ed anche in modo clamoroso – della creatività che giunge da quelle terre martoriate, mi vengono in mente Sama Abdulahadi (nata in Giordania, residente anche lei a Ramallah), Kamilya Jubran, israelo-palestinese stabilitasi a Gerusalemme-Est, Ramallah Underground, fra i primi in attività (2007/09) con il capostipite ed amatissimo Muquata’a, BLTNMN/Saleb Wahad e JZR Crew da Haifa, Marvan Hawash e decine di altre e di altri.
Chi volesse approfondire l’argomento, si può fare un giro sul sito della Bilna’es e vedere il film documentario “Palestine Underground”, assolutamente da non perdere. “Noi siamo la terza generazione della catastrofe, re-sistiamo nella nostra musica, insieme noi siamo la rivoluzione”, parola di ODDZ, Radio Nard Team, Harara Label re-sistente in Ramallah.