ANATROFOBIA, Canto Fermo
“Ritorno con sorpresa”
Non ogni ritorno è riproposizione, non ogni riemersione è restituzione intatta del sommerso. Anzi, ci sono ritorni eterodossi, ricchi di un surplus significante che non si lascia inquadrare nel già stato, di un eccesso incontenibile o di un’erranza non collocabile. Il ritorno discografico degli Anatrofobia si inserisce a tutti gli effetti nella categoria del “ritorno con sorpresa”.
Arrivato tredici anni dopo il precedente Brevi Momenti di Presenza (2007), Canto Fermo è caratterizzato, innanzitutto, da importanti cambi nella line-up: l’aggiunta della vocalità di Cristina Trotto Gatta e del polistrumentismo di Paolo Cantù, unitamente all’assenza del sassofono di Alessandro Cartolari; a rimanere invariati rispetto al trio originario sono il basso fretless di Luca Cartolari e la batteria di Andrea Biondello. L’ascendente dell’Hardcore Chambermusic del trio Koch-Schütz-Studer è ormai piuttosto impalpabile e si fanno strada affinità elettive in passato più implicite, ora dichiarate. Il pluristilismo degli Anatrofobia resta intatto, ma vira verso una moderazione delle spigolosità e un ridimensionamento dell’aspetto primitivista-selvaggio a favore di una forma più compiuta e di un maggiore intimismo cameristico. Ed è con le parole di “Keeping Things Whole” di Mark Strand che viene dichiarata programmaticamente la poetica di questo disco: assenza nella presenza, disparizione nella spazialità, unificazione nel movimento.
“Keeping Things Whole”, un tintinnare di armonici, mette in moto un pezzo in si minore che, per carattere, potrebbe ricordare una versione funerea dei Lamb. Il disegno melodico principale viene sapientemente variato al basso fretless; la rumoristica, con funzione di interpunzione, è affidata alla chitarra, mentre la batteria è soggetto improvvisativo continuo, mobile, frastagliato, asimmetrico. La voce è liturgica, sussurrante, spazializzante. Con questa composizione d’apertura il disco presenta la sua carta d’identità senza sbavature e divagazioni.
“Canto Fermo” è una versione contemporanea, fosca e brumosa, del tradizionale cantus firmus gregoriano. Un canto della lontananza e in lontananza, che cambia conformazione non appena il basso fretless mette in movimento la sua linea per poi liberare il clarinetto come voce solista, in un bordone di sol minore agglutinante e magico.
“Nero Di Seppia” è un dark cameristico à la Fantômas, seppur misurato e ordinato, che potrebbe fare da colonna sonora ad un film come “La scala a chiocciola”. Un lampo nero in una stanza squarciata da ombre inquiete.
“The Speeding Train”, attacco à la Popol Vuh, subito superato dalla messa in moto della “macchina del sentimento”, in cui la voce recitante viene contrastata dall’incremento ritmico-caotico della batteria e dal sovrapporsi di due linee di chitarra (tematica e ritmica) per poi diradarsi nuovamente, ricavando un senso vertiginoso di vuoto, ed infine esplodere in una inevitabile “catastrofe della velocità”: qui la voce, soffocata dietro agli strumenti, cerca di far sentire le sue urla. Finale funebre in dissolvenza.
“Mille”, pezzo trasognato, evanescente, epifanico, come una pagina sonora staccata del diario intimo del ricordo.
“Rubik”, sul testo poetico di Cristina Trotto Gatta, che metaforizza il senso precario dell’esistenza attraverso visioni irrelate, percezioni sottili e tropismi, incede una sorta di western astrale che rotola sul fast della batteria e del monolitico basso.
“Details” è una ballad sulla poesia della concretezza dove gli elementi si travasano l’uno nell’altro, dove sospensione e incompletezza assumono i tratti di una felicità atipica, con una sorta di motto: “details with no tails”. Ambientazione sonora equilibrata, consonante.
“It Should’ve Happened A Long Time Ago” è una composizione dello storico batterista jazz Paul Motian. La resa interpretativa offerta dal fretless di Luca Cartolari è scarna ma cantabile, mentre il batterismo di Andrea Biondello incarna compiutamente lo spirito del moderno batterismo di Motian. Dopo l’entrata della voce, che intona due epigrammatici versi sul potere evenemenziale del dare un nome (“Take this, name it please, make a word for it. / Then tie me to a tree and leave me there”), il tema viene esposto con più vigore e voluta scapigliatura free.
“Alice Wonders” è un pezzo con malinconiche venature soft-punk, in cui la dispercezione paradossale di Alice (“How come then I am always / too big – or too small”) viene tradotta in musica come per osmosi rispetto al testo. Una prima parte, sostanzialmente basata sull’effetto di svuotamento dato dalla logica dello stop-and-go, lascia spazio ad una seconda sezione con loop trainante, effettistica, e un doppio piano di percezione del beat (lentezza agonizzante della melodia / velocità della ritmica irregolare).
“Valzer della Stacada” di Breil, tratto dal repertorio della festa popolare di Breil-sur-Roya, trova qui un insolito ed eccentrico trattamento: è strecciato, vaporizzato, assediato da echi, ostacolato da suoni stranianti.
“Golden Slumbers”, il pezzo di Lennon & McCartney, viene fatto passare per una porta del tempo che ce lo restituisce in pillola, minimalizzato, e con effetti allucinatori e deformanti.
Un più che gradito ritorno, già spalancato sul futuro.