Amplifest, 22-23-24/9/2023
Porto, varie location.
Erano tanti anni che cercavo di andare all’Amplifest. Un po’ per questioni economiche, un po’ per la distanza, un po’ perché si svolge a inizio autunno, quando le vacanze sono purtroppo terminate, andare fino in Portogallo mi è sempre stato molto difficile. Quest’anno, incredibilmente, ogni tassello è finito nel punto giusto e ho potuto finalmente godere di uno dei festival più importanti per chi ascolta un certo tipo di musica.
Di che musica parliamo? Bella domanda. Non credo abbia un nome preciso, ma racchiude tutte quelle sonorità oscure a cavallo tra metal, hardcore, folk ed elettronica, senza essere pienamente inseribile dai puristi in nessuno di questi generi. Per un metallaro è troppo noioso, per uno stoner troppo poco stronante, per un punk troppo poco fisico… È una nicchia di un suono che da tanti anni è promosso da un altro importantissimo festival europeo: il Roadburn.
È impossibile parlare dell’Amplifest senza citare il festival olandese che si tiene ad aprile, perché in un certo senso ne è la sua conclusione. Non il completamento, anzi, ma proprio la sua conclusione. Le band americane, infatti, usano solitamente il Roadburn come tappa iniziale di un tour che se ben bilanciato terminerà alcuni mesi dopo proprio all’Amplifest. Magari inframezzato da un giro negli Stati Uniti, in Australia, ma diciamo che completa un ciclo promozionale. Quest’anno il Roadburn Festival (che ho recensito qui) mi ha dato l’occasione di vedere una fetta dei miei musicisti preferiti: Big Brave, Ken Mode, Wolves In The Throne Room, Ashenspire, Brutus, Backxwash, Chat Pile, Candy, Cave In, Imperial Triumphant, Mamaleek e quindi l’idea di rivederne qualcuno mi solleticava alquanto. Bisogna godersi la buona musica quando c’è, non sperare anni dopo di vedere qualche scialba reunion o maledirsi di aver perso l’occasione.
Amplifest inizia il venerdì con due piccoli eventi. Mi perdo il primo perché ancora alle prese con la sistemazione, ma dopo una bella doccia e una mangiata veloce arrivo alle 23 al Ferro Bar per assistere al set solista di Mat Ball dei Big Brave. Piccola parentesi sul Ferro Bar: un piccolissimo baretto in pieno centro incastonato tra le case e con una piccola grotta con un palco. Il luogo perfetto per assistere al set del chitarrista, che con tre amplificatori settati al massimo volume ci fa passare 40 minuti in compagnia del suo drone metal a cavallo fra il Dylan Carlson più folk e quello più drone. Mat è bravissimo a padroneggiare la materia, trasportando l’ascoltatore in un flusso costante di magma acido in cui ognuno avrà trovato il proprio viaggio personale. Subito dopo inizia un dj set a tema, ma penso di meritarmi un po’ di riposo.
Il primo, vero giorno di festival parte con i Big Brave direttamente nel Burostage, cioè il palco grande. Pensavo fosse una follia far suonare la band all’inizio, ma in qualche modo ha avuto senso. Intanto i Big Brave non piacciono a tutti, in più quello che fanno non è che lo vedi e dici “wow ok”. Devi essere un minimo preparato e propenso a certi suoni. E a certa intensità emozionale. Già, perché se riesci a sincronizzarti con loro sono devastanti: immaginate i Neurosis del periodo buono mescolati a Godspeed You! Black Emperor e Sonic Youth, con voce femminile che sembra chiedere aiuto ad ogni sospiro. Non ci sarete ancora vicini. Ecco, se c’è una band che vale la pena vedere oggi sono loro. Visti al Roadburn, fecero il miglior concerto del festival, li ho rivisti a Busto Arsizio qualche settimana dopo e lasciarono di stucco i presenti. All’Amplifest hanno battuto tutti gli altri di parecchie lunghezze. Sia come attitudine (lo fanno per loro stessi, per sopravvivere, non per vendere la felpa a 70 euro) sia come suono (un muro che spara cannonate sulla faccia): per me vincitori.
Con tale estasi iniziale mi è difficile affrontare il resto della giornata, però ho comunque altre gioie. Non dagli Ellereve, giovanissima band tedesca che ha pubblicato quest’anno l’esordio Reminiscence per la label Eisenwald. Troppo, troppo acerbi per meritare uno spazio in un festival prestigioso come questo. Il loro gothic metal un po’ etereo con voce femminile potrà incantare i fan più giovani, ma lascia abbastanza perplesse le vecchie barbe lunghe. Tornando nel Burostage mi piazzo in prima fila per gli Ashenspire, anche loro goduti al Roadburn Festival ma che mi lasciarono un po’ di amaro in bocca perché l’acustica era piuttosto casuale. Sassofono, due chitarre, basso, batteria e voce suonati insieme in modo piuttosto cacofonico come se Voivod e Black Country, New Road facessero una jam black metal. Il loro disco Hostile Architecture è uno dei più interessanti dello scorso anno e vi consiglio di recuperarlo nel caso ve lo siate persi. Gli scozzesi si presentano come fosse l’assemblea scolastica: un mix di abbigliamento casual e libertino ma tempo di fare due note siamo già tutti conquistati dall’assurda musica proposta. Potremmo definirlo progressive metal ma non credo potrebbe piacere ai fan dei Porcupine Tree.
Nel più piccolo Beerfreaks Stage vengono proposti i locali Hetta, portoghesi dediti ad un robusto post-hardcore screamo vecchia scuola. Il cantante salta, balla, fa capriole, stage diving e ammicca con il suo baffetto da latin lover, ma distrae un po’ troppo da una band che caricherebbe il pubblico anche da sola. Batterista vecchia scuola da lacrime. Bravi ma concerti così dovrebbero durare 10 minuti.
Mutoid Man sono la “nuova” band di Stephen Brodsky dei Cave In, in compagnia di Ben Koller dei Converge e di Jeff Matz degli High On Fire. Hanno recentemente pubblicato un disco pazzesco che si intitola Mutants pieno di riff iper cinetici e ritornelli memorabili. Magari non il classico disco da ascoltare in casa, ma che funziona alla grande in macchina o ascoltato assieme agli amici fracassoni. Dal vivo sono I N C R E D I B I L I! Stephen sa coinvolgere il pubblico come uno sgamato wrestler babyface e tutti insieme fanno letteralmente scintille. Riff tecnici suonati alla velocità della luce al servizio di canzoni divertenti che si fanno cantare dopo mezzo ritornello. Pubblico in visibilio e pure una cover di “21st Century Schizoid Man” dei King Crimson. Se capitano dalle vostre parti andateli a vedere senza indugio.
Da qui in poi la prima giornata perde un po’ di interesse per i miei gusti e la stanchezza inizia a farsi sentire. I gruppi dopo non sono tra i miei preferiti e me li godo un po’ in disparte. Sir Richard Bishop… che gli vuoi dire? Il maestro della chitarra desertica non ha certo bisogno di presentazioni e infatti incanta i presenti con la sua mirabolante tecnica esecutiva. I Celeste, invece, proprio non mi sono piaciuti. Devo dire che dopo le prove iniziali (diciamo i primi due-tre dischi) non mi hanno mai convinto più di tanto. Non capisco il concept della lucina (che era carino ai tempi nei piccoli club completamente al buio) e musicalmente li trovo piuttosto mediocri. O meglio: bravissimi nel fare quello che fanno ma è un tipo di mix che non mi prende per niente. Riffoni massicci super tamarri, iperprodotti, che non si evolvono in nessun modo. Le numerose corna al cielo non mi conquistano. Probabilmente in un contesto “Hellfest” o “Wacken” sarebbero più adatti.
Invece mi sorprendono in positivo gli Hexvessel, che hanno appena pubblicato il buon Polar Veil. E proprio il freddo polare è quello che sentiremo nel piccolo palco Beerfreaks: bordate di black metal mescolate a folk e a roba personale e introspettiva. Non il concerto della vita (hanno bisogno di un po’ di date di rodaggio, erano un po’ distratti da piccoli problemini tecnici) ma una bella sorpresa.
Ora è il momento in cui tanti mi odieranno: gli Amenra non mi piacciono. Sono pretenziosi ma senza fare niente di nuovo. Il loro è un banalissimo cut&paste dei momenti più semplici di Isis, Tool e Neurosis e a ogni riff riconosco questo e quel plagio. Questo cut&paste viene venduto a peso d’oro a un pubblico che si fa incantare da visual depressive (piuttosto cheap, diciamolo) e magliette che fa figo mettere. Suoni giganteschi, cantante di spalle (diteglielo che non è Maynard), canzoni che partono in un modo e non sviluppano niente di strano. Amenra sono la perfetta band per persone che hanno appena scoperto il post-metal. O che magari non ne conoscono minimamente il resto. Suonano? Sanno fare bene le tre cose che fanno. Ma che noia. Per il primo giorno è tutto.
La mattina della domenica mi perdo il documentario sugli Earth perché vado in giro per la città, ma sono in prima fila per l’inizio dei concerti. Ad aprire la giornata il violentissimo black death metal dissonante degli Aeviterne. Ho macinato così tanto il loro The Ailing Facade che potrei suonarlo tutto facendo air guitar o air drumming. Pur presentandosi con gli stilemi della classica death metal band, sono decisamente strani. In primis i riff: spesso mono-note tirate allo spasimo o giochi di dissonanza molto New York Noise (non a caso vengono da lì). Poi il batterista: prima di vederlo ero convinto che non fosse umano. Mi sarei aspettato anche una drum machine. E invece. Per quanto mi riguarda il secondo concerto più bello di tutto il festival dopo quello dei Big Brave.
Il Burostage (il palco più grosso) ospita David Eugene Edwards ovverosia Wovenhand e leader degli indimenticabili 16 Horsepower. Ormai un veterano, un gigante. Un po’ come assistere a un concerto di Nick Cave o del compianto Mark Lanegan. Un piccolo tesoro. Lui, vestito da sciamano e illuminato da una flebile luce che viene dall’aldilà e da visual apocalittiche, ci canta di redenzioni, peccatori e disagi vari. Per niente comunicativo: non sorprende perché rimanga un personaggio ai margini. Per molti ma non per tutti.
Hillary Woods era la bassista dei JJ72, band indie rock irlandese che ebbe 10 minuti di popolarità nel 2000. Dopo parecchi anni di silenzio torna sulle scene grazie alla Sacred Bones che ne pubblica i dischi solisti. Il suo set è parecchio striminzito: lei ai synth, voce (effettata) e chitarra (poca) si fa accompagnare da un batterista “free” che dovrebbe sostenerla nelle parti ritmiche. Secondo me erano piuttosto sfilacciati e non proprio legati e Hillary avrebbe colpito di più con un set minimale rumoristico alla Grouper. Rimandata.
Divide And Dissolve è un gruppo che ti fa capire quanto è bello il drone metal. La cantante, sassofonista, chitarrista Takiaya Reed è sempre sorridente, anche quando ti butta bordoni sulla faccia come fossero lava fumante. Anche quando racconta storie tragiche e quando lancia proclami contro maschilismo, patriarcato e privilegi bianchi. Ad assecondarla la nuova batterista trans Scarlett che sostituisce degnamente Sylvie Nehill. Divide And Dissolve è un progetto senza senso ma è proprio questo il bello. C’è semplicemente un’adolescente ribelle e incazzata che lancia bordoni addosso al pubblico. Una goduria. Un po’ prima del concerto dagli speaker sono usciti i Low, inevitabile la lacrimuccia dato che qualche mese prima che morisse Mimi vidi proprio Divide And Dissolve in apertura a loro.
Pausa riposo in attesa dei due concerti che attendo di più e che purtroppo segnano la fine della due giorni: Ken Mode e Sunn O))). Purtroppo perdo Esben And The Witch, ma avendoli già visti al Roadburn sapevo già che avrebbero suonato divinamente. Le mie orecchie avevano bisogno di rimanere in tema distruzione.
Ken Mode hanno pubblicato il nuovo Void, seguito dell’ottimo Null che vedeva l’inserimento in organico della sassofonista e tastierista Kathryn Kerr. Inserimento che ha fatto trovare la quadra ad una band troppo spesso sottovalutata e di cui molti stanno andando a ritroso a conoscere la discografia. Anche loro li vidi al Roadburn e fu uno dei concerti più intensi del festival e la stessa cosa vale anche per il concerto all’Amplifest. Attualmente nessuno riesce a suonare metal, noise, sludge, hardcore, post-hardcore come loro. Hanno la potenza ma anche la classe di riuscire a scrivere canzoni memorabili e dal vivo hanno una presenza che non lascia indifferenti. Si sentono gli echi dei Melvins di Houdini, dei Today Is The Day più malvagi, dei Converge ma non è un cut&paste, anzi. Ne espandono l’universo espressivo non limitandosi al riff ruffiano per compiacere il pubblico facilone. Dopo Big Brave e Aeviterne il mio concerto preferito. Li rivedrei altre mille volte.
Al termine del concerto rimango nel Burostage e mi godo il montaggio del palco dei Sunn O))), uno spettacolo nello spettacolo. Un po’ come Roger Waters che porta in giro The Wall: da bambino ero ossessionato da quel muro che si costruiva pian piano e che incombeva sullo spettatore. Oggi quel muro è rappresentato da amplificatori Sunn, Marshall e Ampeg, un muro che sembra uno Stonehenge in cui i due druidi O’Malley e Anderson invocheranno chissà che spiriti. Prima del concerto mi scappa da ridere nel vedere la curiosità e l’eccitazione del pubblico, perché sono ben conscio che saranno due ore di stracciamento di palle. E ve lo dice uno che li ha visti almeno una dozzina di volte. Non se ne scappa: dopo due minuti avrete sentito tutto quello che c’era da sentire (BRRRRRRRRRRRRRRRROOOOOOOMMMMMM) e visto tutto quello che c’era da vedere (nebbia). Il difficile è resistere DUE ORE. Come si fa? Ognuno a suo modo: sicuramente pensa. E il cervello si mette in moto in modo strano: si ragiona sul futuro dell’umanità, su quanto sarebbe bello anche vedere un concerto di Dua Lipa, sulla possibilità concreta di uscirne sordi, se sono passati almeno 40 minuti o solo 10. Però sappiate che un’esperienza così non esiste al mondo. Il fantastico duo non è sprovveduto e sa come mantenere l’attenzione per tutto il set. Sì con le mosse che abbiamo tutti fotografato a un loro concerto (giurerei di averli visti giocare a morra cinese) e con il bilanciamento delle due anime. Perché c’è il momento O’Malley e il momento Anderson: chi ha un po’ di orecchio riesce a cogliere le differenze. Il primo è più etereo e ha un controllo del suono più preciso, il secondo è un fabbro e suonerebbe doom per tutto il tempo se il socio non lo fermasse dicendogli “tieni sta nota per dieci minuti, dio xxxx”. Al termine delle forze del pubblico, quando tutto sembrava ormai detto, i due scatenano le forze e spaccano tutto: fischi, droni, suoni alieni che sembrano usciti dall’Arca Perduta di Indiana Jones liberando spiriti, entità oscure e chissà cos’altro. E se due ore di drone suonato a quel modo hanno a dura prova le orecchie e il fisico, per qualche strano motivo ne vorremmo ancora. È un’esperienza masochista tra le più strane possibili.
Amplifest è un festival organizzato perfettamente, non troppo affollato e senza grossi problemi tecnici. È una perfetta alternativa più economica e meno stancante del Roadburn. E si mangia meglio. Porto, poi, è una città deliziosa che si presta ad essere scoperta pian piano. Se volevate un’opinione se in futuro andarci o meno la mia risposta è: SÌ. Non ve ne pentirete.