AMENRA, Colin H. van Eeckhout
Milano, Santeria, 2 marzo 2018. Anche le foto sono di Antonio Cassella.
Un anno e sette giorni, tanto è durata l’assenza degli Amenra dall’arena concerti del Santeria Social Club di Milano, dopo un’esperienza acustica che ancora si riverbera in chi vi scrive. Attendevo con trepidazione questa data perché avevo la certezza di assistere a uno spettacolo unico ed eccezionale, nel vero senso della parola; i belgi dal vivo sono ormai universalmente riconosciuti come una delle poche band della scena hardcore-metal in grado di creare un legame davvero intimo e forte col suo pubblico, si sono costruiti nel tempo una reputazione al limite del sacro. Li accompagnano i Boris, che non vedo da più di un decennio e che ritrovo in forma smagliante, con una scaletta concentrata sull’ultimo lavoro e con escursioni che lambiscono Absolutego e Pink. Il tempo passa, ma la classe e l’efficacia con cui Wata, Atsuo e Takeshi riversano muri di suono alternati a momenti più riflessivi e sognanti sono inattaccabili.
Lo show degli Amenra è la messa in scena del concetto stesso di “emozione”, nell’essenzialità della scenografia scarna e dominata dalla videoproiezione di sequenze estrapolate dal loro immaginario, le rare luci bianche ci restituiscono i cinque musicisti costantemente rapiti nell’atto di comunicare con noi le loro intenzioni. Non è un caso, come loro stessi ricordano, che gli album riportino il nome Mass ripetuto durante gli anni, perché l’intenzione è proprio quella di costruire una comunità, un consesso di esseri umani, di cuori, di dolore che possa trovare in momenti come questi una forza catartica, un sollievo attraverso la comunicazione e la comunione.
Ho avuto il piacere di intervistare Colin H. van Eeckhout poco prima del concerto di Milano e abbiamo discusso di cosa effettivamente smuova tanto l’artista quanto il fruitore dell’opera artistica.
Ringrazio calorosamente lo staff di Santeria SC, Hardstaff Booking e Rarely Unable per aver collaborato con noi e aver reso possibile questo articolo.
Come sta andando il tour questa volta?
Colin H. van Eeckhout: Scorre bene, abbiamo avuto giusto qualche problema ad arrivare a Milano per la nebbia e la neve, ma tutto il resto sta andando davvero bene. I Boris sono delle persone squisite ed è una bella opportunità per vivere fianco a fianco con chi ha una cultura così diversa dalla tua, imparare qualcosa di nuovo da loro e viceversa. Ci stiamo davvero divertendo molto, adesso mancano tre date e poi torneremo in Belgio, dalle nostre famiglie, ma siamo molto felici, abbiamo trascorso dei bei momenti insieme.
È sempre bello tornare a casa dopo un tour…
Assolutamente, anche se, devo dire, che mi piace molto stare in tour a suonare. Adesso che non siamo più ragazzini e molti di noi hanno dei figli e una famiglia, cerchiamo di concentrare gli show in periodi più brevi, ad esempio questa volta siamo stati in giro un mese.
Il mese scorso, ho avuto il piacere di intervistare Scott (Kelly) e mi ha detto che avreste registrato delle nuove sessioni per gli Absent In Body in questi giorni. Potresti darci qualche altra anticipazione in merito?
Questa volta abbiamo voluto esplorare e sperimentare un po’ di più con i nuovi pezzi per gli Absent In Body. Voglio dire, partiamo sempre dall’intenzione di lavorare con sonorità molto destrutturate, ma con questo disco siamo stati più metodici e concreti nell’arrangiamento. Ci sono dei beat essenziali ma concreti, io ho già registrato le parti di basso, Scott ha fatto la ripresa delle chitarre, sarà sicuramente in continuità con quanto prodotto in precedenza, solo più evoluto: sarà un ibrido di elettronica e musica più pesante. Siamo partiti da delle basi ritmiche elettroniche stese da Mathieu con l’aiuto di un nostro amico e poi, da lì, abbiamo sviluppato la struttura dei pezzi veri e propri. Forse, se ce ne sarà l’occasione, Igor Cavalera registrerà per noi delle parti di percussioni, quindi, sì, siamo molto felici per la forma che sta assumendo il progetto.
Sarà molto diverso dall’album precedente allora.
Sì e no, diciamo che sarà un’evoluzione dello stile. Sarà meno ambient e avrà più tiro. Non sappiamo ancora come suonerà di preciso, siamo nel bel mezzo dell’opera, sta prendendo forma e possiamo capire che direzione stiamo percorrendo, ma credo che conosceremo la sua forma finale solo quando l’avremo finito.
Ti piace lavorare in questo modo?
Sì, prima, nei primi anni degli Amenra, scrivevamo i nostri pezzi jammando insieme, ci trovavamo spesso, suonavamo a lungo e tenevamo le idee che scaturivano da quelle sessioni. Ora siamo più maturi, ognuno di noi ha molti più impegni, più band da seguire, figli, famiglia, lavorare in quel modo sarebbe impensabile. Ci siamo abituati a lavorare basandoci sulla confidenza che abbiamo saputo costruire negli anni, andiamo in studio e lasciamo che i momenti decidano al nostro posto invece che metterci ad analizzare e razionalizzare ogni cosa. Ovviamente per gli album degli Amenra seguiamo ancora un processo analitico abbastanza strutturato, ma per i nostri progetti paralleli preferiamo lasciarci guidare dall’istinto.
Credo che Church Of Ra ricada bene all’interno dei tuoi progetti, anzi, penso sia il contenitore collettivo più complesso che abbiate creato. Qual è il collegamento tra l’arte visiva e la musica? C’è una sudditanza, una gerarchia tra i due elementi?
No, assolutamente, sono due entità che entrano in relazione indipendentemente tra di loro e ne escono rafforzate, secondo me. Iniziò tutto quando con gli Amenra, nei primi tempi, analizzavamo le band che ci piacevano e iniziavamo a trovare dei punti deboli. Magari ascoltavamo un disco che aveva una proposta musicale eccellente, poi, guardavi il supporto, la confezione, l’artwork e ti veniva da dire “Ah, ma che cazzo è questa roba?!”. In certi casi ci sembrava che le band, dopo aver scritto le canzoni, avessero commissionato in fretta e furia tutto il resto a terze parti, artisti e grafici scelti più o meno a caso, e questo sfociava in un prodotto scadente, che non rendeva giustizia alla musica, o meglio, che presentava una proposta poco curata, non completa. Voglio dire, è come quando ascolti una canzone che funziona benissimo sotto l’aspetto armonico, ma poi leggi il testo e non ti comunica assolutamente nulla, è scadente. Ragionamenti simili ci hanno sempre toccati da vicino e ci hanno fatto lavorare affinché i nostri album fossero curati sotto ogni punto di vista, per poter comunicare al meglio il messaggio di cui volevamo si facessero tramite. Potevamo farlo e sentivamo perciò di doverlo fare, perché avremmo dovuto limitarci? Iniziammo così a contattare nostri amici artisti, designer, grafici, gli abbiamo parlato, fatto conoscere la nostra visione, siamo entrati in empatia con loro e così abbiamo trovato sempre più comunione con chi stavamo lavorando. Da qui a conoscere persone che si interessano per affinità di scopi e di metodi il passo è stato tanto breve quanto naturale: più i nostri album e le nostre proposte venivano diffuse, più c’era risposta da parte di persone che concepivano delle visioni artistiche simili alle nostre, ed è stato per noi spontaneo entrare in contatto con loro. Ad esempio, nei primi tempi ci piaceva fantasticare su dei soggetti creati al PC, con Photoshop, poi, queste idee hanno preso a circolare e quando abbiamo incontrato altri artisti, come ad esempio degli scultori ai quali piacevano le nostre proposte, abbiamo potuto realizzare insieme qualcosa di concreto partendo da un concetto che era solo astratto, e penso che questo sia fantastico, perché entrambe le parti sono entusiaste, motivate nel crescere insieme. Questa è stata l’essenza del progetto Church Of Ra, tutti parlano sempre delle band che hanno fatto parte di questo collettivo, ma, in realtà, la vera scintilla e il vero collante del movimento sono la coesione e la condivisione artistica. Incontrare disegnatori, scultori, fotografi, artisti in generale che abbiano saputo collaborare con noi ci ha permesso di definire un vero e proprio stile che ha finito per caratterizzare non solo la nostra presentazione ma anche il nostro saper essere efficaci nel proporre un messaggio in maniera coerente. Siamo cresciuti insieme, come un gruppo di persone, ci ha permesso di far conoscere il lavoro delle diverse individualità che hanno partecipato al nostro collettivo e quindi di dar loro risonanza.
Una vera e propria comunità, insomma.
Sì, esattamente, è una comunità di persone che diventano amici perché hanno qualcosa in comune, perché si piacciono e perché lavorano bene insieme. Diventa un posto per condividere, confezionare e perfezionare delle idee che, altrimenti, rimarrebbero solo teoria o poco più. Una vera famiglia di artisti, insomma.
Questo mi porta a chiederti qualcosa riguardo Mass VI. Mi sembra che questo album si concentri sulla tematica delle relazioni interpersonali, in special modo sulle figure femminili. Mi ricordo di una vostra dichiarazione in cui parlavate di come il rapporto con le vostre rispettive madri avesse influenzato molto la nascita di alcune tematiche che compaiono in questo disco.
Assolutamente, nel nostro caso tutti noi componenti degli Amenra abbiamo un rapporto davvero intenso con le nostre madri e le vediamo come delle figure eccezionalmente forti nelle nostre famiglie e nelle nostre vite. Loro sono rimaste ferme e sicure nelle nostre vite, ci hanno dato tutto, oltre al materiale, ci hanno dato il loro cuore e hanno formato il nostro. Hanno nutrito il nostro spirito e questo doveva essere messo in musica in qualche modo. Inoltre, l’album precedente trattava di tematiche più vicino al mondo maschile, al rapporto tra padre e figlio, di come io ho perso mio padre, di come abbia cercato un modo di dare senso a tutto questo, di esprimerlo; dopo quest’esperienza, è stato quasi consequenziale cercare di onorare le nostre madri, di dire quanto siano importanti per noi. Nel corso della stesura degli arrangiamenti, proprio mentre stavamo iniziando a mettere in pratica l’idea di intervistare le nostre madri, una di loro è mancata e in quel momento abbiamo capito che avremmo dovuto assolutamente trattare di questo legame, di quanto significasse per tutti noi, aveva estremamente senso quello che volevamo fare, era vero. Non si trattava più solo di raccontare le loro storie con la nostra musica, ora sentivamo l’urgenza di ciò che era successo, di lasciarsi andare e afferrare la tensione e farla diventare veramente significativa, comunicativa. Se lasci sedimentare gli avvenimenti, allora inizi ad analizzarli troppo e perdi la spontaneità del momento, delle emozioni che stai provando; preferisco lavorare in un’altra maniera, concentrarmi su quel che è accaduto in un attimo ben preciso e farmi trasportare.
Quindi le vostre canzoni partono da temi che possono essere considerati come umani e quotidiani, che coinvolgono la nostra vita.
Sì, parte tutto da ciò che sta vicino ai nostri cuori e alle nostre vite. Parlare con un amico che si stava separando e che vedeva la propria famiglia sfaldarsi sotto i suoi occhi, che non sapeva cosa sarebbe accaduto a se stesso e al rapporto che lo legava alla sua compagna e ai suoi figli, ad esempio, ci ha toccati profondamente e ci ha spinti a scrivere una canzone a riguardo, perché lo conosciamo, sapevamo che stava soffrendo e non volevamo assolutamente che stesse male. L’arte per noi parte da queste cose, che possono sembrare banali, ma, in realtà, non lo sono affatto, sono l’essenza della vita stessa. Siamo fatti di queste cose, per la maggior parte.
Parlando di punti di vista sull’arte, considerando il tuo lavoro artistico con la performance e la body art, hai un interesse particolare in questo tipo d’attività anche al di fuori dei concerti con gli Amenra?
Facevo performance di sospensione più spesso negli anni scorsi, perché avevo più tempo, mentre adesso mi concentro solo sulla musica e sugli Amenra, perché penso di aver tempo a sufficienza per far bene solo una cosa e non voglio lasciare altri progetti a metà, per così dire. Tuttavia è importante per me avere del tempo da dedicare a qualcosa di fisico con cui io possa evolvere ed esprimermi. Diventa davvero difficile da spiegare, è come se ci fossero dei momenti nella mia vita in cui mi dico “Ok, adesso devi farlo, questo è il momento giusto per esprimerti in questa maniera”; è come se mi scattasse una sorta di via libera interiore che mi dice che è l’esatto istante in cui quella cosa deve accadere. Per me è importante che quello che faccio a livello artistico col mio corpo sia legato a ciò che faccio musicalmente con gli Amenra, perché tutto si lega e si compenetra come linguaggio artistico, semplicemente, non ne voglio abusare, non voglio assolutamente che divenga qualcosa di ripetuto, prevedibile, scenico, per così dire, perché ovviamente verrebbe subito svuotato del suo significato. Non voglio che divenga una specie di “mossa da shock-rock”, perché è troppo prezioso per svilirlo in questa maniera. Ad essere precisi, la prima volta che praticai la sospensione dal vivo fu in occasione delle registrazioni del nostro dvd, nel 2009, e mi ricordo che dopo quella volta mi dissi che non l’avrei fatto più, perché trovavo che sarebbe stato difficile per gli spettatori dar spazio nelle loro menti a quanto accadeva sul palco e posso capirlo. Poi, son passato quasi dieci anni e l’ho rifatto e mi sono quasi detto “Cazzo, mi ero ripromesso di non farlo!”…
… ma in un certo senso sentivi la necessità di farlo?
Sì! Noi tutti facciamo certe cose perché sentiamo la necessità, l’impellenza di farle. Effettivamente dopo lo show ho sentito delle persone che dicevano che sì, lo spettacolo era stato bello, ma che, in effetti, lo sarebbe stato anche qualora non avessi svolto la mia performance fisica, che non c’era bisogno di andar oltre, e li posso capire, capisco il loro punto di vista, ha senso… ma non me ne frega niente allo stesso tempo! Perché se penso che quello fosse il momento preciso in cui qualcosa dentro deve essere tirata fuori e messa in scena con quel preciso linguaggio, allora lo farò. È un po’ come se un pittore dipingesse un quadro con il colore rosso e qualcuno alla fine dicesse “Sì, beh, ma non era necessario usare il rosso”… Chi se ne frega! (ride, ndr). Se ragioni secondo quella mentalità, niente è strettamente necessario, nemmeno suonare e fare un concerto, quindi capisci che diventa davvero difficile per me a volte non interessarmi a ciò che le persone dicono riguardo quel che facciamo. Ti dirò di più, noi ci interessiamo profondamente a quel che si dice in giro di noi, leggiamo ogni cosa, ogni commento che ci riguarda, perché abbiamo estremamente a cuore la nostra espressività e ci interessa capire come viene percepita.
Posso capire, ma è più una preoccupazione di come apparite agli occhi del vostro pubblico o un sano rispetto di se stessi che vi motiva in questo senso?
No, assolutamente, non è questione di lasciare che le persone ti guidino artisticamente la mano o di fare ciò che è accomodante o che piace al pubblico. Naturalmente ci interessa che le persone apprezzino ciò che facciamo e ci interessa ancor di più, ci intriga capire come quel che facciamo viene percepito e ricevuto. In questo senso è interessante perché la gente può darti nuove prospettive sul tuo lavoro, ad esempio, un’intervista può farti riflettere riguardo quello di cui stai parlando, oppure possono arrivarti addirittura nuovi stimoli da critiche e commenti ed è fantastico. Ma tornando all’origine del problema, non lascio assolutamente che l’opinione esterna regoli le mie performance fisiche, specialmente perché la body art e la modificazione corporea, per me, rappresentano uno dei primi impulsi creativi che hanno dato forma al progetto Amenra inizialmente.
Molto interessante, in che senso?
Dietro alla pratica della modificazione corporea e della performance di body art c’è un palese intento rituale e questa dimensione è importantissima per noi. I nostri concerti sono in un certo qual modo spirituali, religiosi, se sei aperto a questa interpretazione c’è sicuramente un senso di necessità di comunione, di condivisione di uno spirito che leghi i presenti. Sul palco cerchiamo di consumare un rituale che ci unisca col pubblico, nel tentativo di costruire una comunità.
Sì, credo di aver sentito esattamente questa sensazione quando siete venuti proprio qui a Milano un anno fa con il vostro set acustico: fu un’esperienza straniante e spettrale.
Sì, questo è il senso che vogliamo trasmettere, vogliamo far capire che quando suoniamo in acustico, ad esempio, stiamo comunicando una tensione, un’energia diversa da quella che proponiamo durante i concerti elettrici. Cerchiamo di condividere un momento in cui, per così dire, le stelle convergono o, ancora meglio, cerchiamo di farle convergere noi.
Quello che più mi ha stupito della vostra performance di quella sera, come tu stesso hai ribadito a Matteo oggi pomeriggio sulla diretta di Radio Raheem, è stato trovare tutta l’audience in silenzio assoluto mentre suonavate. Tu stesso hai detto che non lo chiedete espressamente nei vostri show, eppure succede.
Sì, esatto, non lo chiediamo ma accade spontaneamente, è qualcosa di speciale e non ci puoi assolutamente fare l’abitudine. Fa immensamente piacere, perché vuol dire che hai creato una forte connessione con il tuo pubblico. Tra l’altro, questo di solito non viene tenuto in considerazione, ma, noi, sul palco, sentiamo tutto, anche durante gli show amplificati, quando ci sono magari delle parti più sommesse in alcune canzoni possiamo sentire la gente dalla sala e magari anche se qualcuno sta parlando o facendo qualche verso stupido… e non ti nascondo che ogni tanto ci dà un po’ sui nervi (ride, ndr). In questo senso, quando la gente che viene ai nostri show, spontaneamente, decide di regalarci il suo rispetto verso quello che facciamo sotto forma di silenzio, addirittura attendendo la fine dell’esecuzione per applaudire, questo ci tocca profondamente e ne siamo onorati e felici. Addirittura ti dirò che a volte questa cosa ci spiazza… Magari stai per finire un pezzo e non vedi l’ora di bere un sorso d’acqua o dare un colpo di tosse, così aspetti l’applauso e… merda! Non arriva! (ride, ndr) E allora che fai? Devi stare anche tu fermo e zitto! Ma, scherzi a parte, è una cosa meravigliosa quando accade.
Parlando di tutt’altro, ci sono degli artisti di cui sei particolarmente appassionato?
Guarda, è strano, ma no, nessuno in particolare. Non ho un’educazione artistica particolare e so solo quello che i miei amici mi segnalano di volta in volta. Non leggo molto, per giunta, anzi, praticamente non ho mai l’occasione di prendere un libro e dedicargli tempo. L’ultimo romanzo che mi ha ispirato molto è stato The Road, di Cormac McCarthy, mi ci sono molto affezionato, lo passerò ai miei figli, ma è comunque un’esperienza estemporanea, non posso dire di avere metodo o di conoscere molta letteratura. Per certi versi mi dispiace, perché penso davvero che siano strumenti che possano renderti la vita più semplice.
Non senti la spinta a farlo o è più che altro una mancanza di tempo?
Sento l’impulso a conoscere di più, ma non riesco a fermarmi e a dedicarvi tempo. Sono troppo irrequieto, senza posa per star fermo e leggere o ascoltare della musica, ascolto due o tre battute e poi… ok, devo fare altro! Non è il massimo della vita e me ne dispiaccio, ma è così che va con me.
Non è mia intenzione annoiarti con la letteratura, ma, c’è una citazione di Ungaretti che mi ha sempre colpito: “La poesia è poesia quando porta con sé un segreto”. Riconosci la tua intenzione artistica in queste parole?
Sì, sicuramente, l’arte deve avere quel qualcosa di speciale, di magico che altre comunicazioni semplicemente informative non hanno. Deve toccarti e parlarti nel profondo, deve aspirare all’essenza di quel che parla, all’universalità, andare oltre le semplici parole. Te ne accorgi subito quando stai scrivendo e riesci subito a dire cosa è inutile e cosa, invece, centra subito il bersaglio. I poeti e tutti coloro che riescono a comunicare per iscritto le loro emozioni mi stupiscono e mi affascinano, così come gli artisti in generale, tra quelli che ho avuto il piacere di conoscere. In particolare, credo che Hermann Nitsch e Anselm Kiefer mi abbiano ispirato moltissimo con le loro opere. Anche tutti gli artisti che ruotano attorno a noi, a Church Of Ra, riescono a raccontare la stessa storia, comune, in maniera eccezionalmente vivida, e credo che questo sia stupendo.
Pensi che ci sia un filo conduttore che lega tutte le espressioni artistiche a questa storia comune?
Credo che l’essenza di tutto sia la lotta senza fine contro ciò che trascina il nostro spirito nell’abisso, il cercare una luce combattendo un’oscurità senza speranza. Credo che questo sia l’elemento che riesco meglio a riconoscere in ogni opera con cui mi relaziono. Credo si possa identificare con la melanconia, con quel senso di ricerca costante di un equilibrio che non arriva facilmente. E questa sensazione è sempre lì, sin dall’inizio dei tempi, dentro di noi, qualcosa che ci fa sentire allo stesso tempo tristi ma non abbattuti, ad esempio, uno potrebbe riflettere sulle nostre canzoni, sulla nostra musica e trovarla, in linea di massima, malinconica, triste, ma poi basterebbe volgere lo sguardo altrove, anche in contesti formalmente assai diversi da quello che ci definisce, e trovare ciononostante delle corrispondenze. Prendi il fado portoghese, che è l’incarnazione della saudade, in qualche modo crea un collegamento che, cavolo, è lontano almeno un centinaio d’anni, ma testimonia che già molto tempo fa c’era questo tipo d’urgenza, di ricerca. Ed è bellissimo capire in questa maniera che stai lavorando con qualcosa d’importante, con una sensazione che non stai provando solo tu, ma che è vecchia tanto quanto il genere umano.
Quindi non pensi che ciò che muoveva gli artisti in passato e che muove anche voi tutt’ora sia diverso?
Assolutamente no, ed è questa la cosa straordinaria, non è per nulla diverso, è ancora la stessa urgenza, la stessa lotta. In essenza stiamo usando parole, colori, suoni di volta in volta diverse a seconda del nostro stile e del nostro tempo, ma il fulcro della discussione, rimane immutato: abbiamo lo stesso cuore, proviamo lo stesso dolore quando i nostri sentimenti sono feriti. Ciò che abbatte il nostro spirito non è un fatto contingente, ad esempio, una guerra in particolare, ma ciò che esso comporta; se vedi una fotografia di un padre che scappa da un quartiere bombardato con il corpo di suo figlio tra le braccia, non vieni colpito dall’idea della brutalità della guerra, in prima istanza, ma dal suo dolore, da quanto quel dolore possa essere umanamente comprensibile, possa comunicare con la tua sensibilità. E ti colpirà istantaneamente, lo capirai subito, perché queste sono le cose che hanno il maggior impatto nella vita, non i soldi, non la fama, non il riconoscimento del pubblico quando sei sul palco per il fatto che sei riuscito a fare dell’arte, ma l’amore che proviamo per le persone care e il dolore che provoca lo spezzarsi di questi sentimenti. Credo che questo sia, nel complesso quello che ci muove maggiormente, specialmente col passare degli anni.
E se qualcuno non fosse in grado di trovare una passione?
Non so, io spero davvero di riuscire a passare questo ai miei figli, che possano avere uno scopo nella vita e possano provare passione per quel che fanno, che possano trovare delle passioni che li muoveranno nella loro vita. Prendi ad esempio mia madre, apparentemente non aveva delle grandi passioni, qualcosa che effettivamente la spronasse a ricercare attivamente delle soluzioni… ma poi, pensando, capii che forse ero io, suo figlio, la sua passione, e quindi, ecco che tutto torna. Un mondo senza passione, un’umanità senza passione, non credo sia possibile, nonostante ci sia un gran numero di persone che vive una vita felice e realizzata semplicemente rimanendo all’interno del successo e degli obiettivi che la società, condizionandoci, ci impone, ma non li giudico, spero solo che chiunque, in qualsiasi modo, possa trovare un po’ di felicità e di tranquillità nella sua vita.