Almanacco di domani #6
Tra modernità e tuffi nel passato, tra musiche uggiose e altre ottimistiche, persi in quel lunatico contrasto umorale tipico dell’ultimo mese dell’anno.
ALBUM
HOUSE
WAAJEED, From The Dirt (Dirt Tech Reck)
La Detroit House torna a ruggire con quello che è di fatto l’album di debutto di Waajeed, al secolo Robert O’Bryant, produttore e dj della Motor City che si è dato sempre un gran daffare per diffondere il verbo musicale della sua città natia, girovagando senza sosta e soluzione di continuità tra house, hip hop, jazz, funk e soul, collaborando con numerosi artisti locali più o meno noti, in formazioni sempre diverse. È fondatore della Dirt Tech Reck, con la quale sta pubblicando tutto lo spettro funk/ghetto/hiphop tipico della sua formazione musicale. E finalmente arriva a un album tutto suo: house, senza mezzi termini, un triplo vinile dove riesce a esprimere al meglio un lungo percorso che parte dal classicismo chicagoano e arriva alle soluzioni maggiormente contaminate di – per dare un’idea – artisti come Moodymann o Theo Parrish.
“From The Dirt” inaugura il primo solco con un groove meccanico che sprizza Detroit da tutti i pori, “After You Left” passa a un taglio tech con sghembi campioni vocali, “Things About You” torna su un classicismo in odor di garage con un eccitante taglio funk-disco, “Make It Happen” è ancora in virata classica con il piano a scorazzare libero mentre la voce di Jay Hill assesta il suo vibrato. “Power In Numbers” è un cut dal suono moderno, con l’acido a tracciare traiettorie inusuali mentre intorno è tutto un incendio di cut up vocali, sirene e beat tonanti. “I Ain’t Safe” riporta la calma con un brano intriso di soul e future jazz, il tutto sorretto da una ritmica percussiva tribale. “My Father’s Rhythm” è jazz decomposto e riassemblato con maestria in chiave house. ”I Just Wanna Tell” scivola in gospel house con un ispirato vocal maschile e “Too Afraid” è di nuovo classica vibrazione house con loop vocale e batteria elettronica a buttar giù un groove ipnotico. In chiusura un brano tutto arpeggio, voce e organo a virare da RnB ad house con classe a non finire. C’è del lavoro incredibile dietro la costruzione di questo disco, un lavoro che parte da molto lontano, passa per anni di passione, studio, prove, esperimenti e tanto sudore, un lavoro che ripaga con alcuni dei migliori pezzi house che vi capiterà di ascoltare quest’anno.
TECHNO / HOUSE / CHILL OUT
PERISHING THIRST, Pilgrims Of The Rinde (NAFF)
Ecco, questo era uno di quei dischi da aspettare con ansia. In arrivo dal Canada, la sua pubblicazione era stata annunciata per settembre e poi rinviata di continuo. Nel momento in cui scrivo il pre-order attivo sui vari siti indica la data del sette dicembre. Le poche righe di presentazione parlano di una rave band di Montreal, ma di questo non posso darvi conferma. Quel che conta è che in questo doppio album è riversato un frullato di suoni e visioni che discende in maniera piuttosto diretta dall’epopea ambient-house di artisti come Orb o KLF, impreziosito da rifiniture ambient sofisticate e da arrangiamenti che ne sottolineano i tratti di modernità. Se vi fermate a pensarci bene, infatti, la sostanziale differenza tra le produzioni dei primi anni ’90 (e lo spirito che le animava) con quelle attuali è data dalla consapevolezza o meno con cui si affrontano le cose. Il suono ‘90 manteneva quei tratti di imprevedibilità e arcigna libertà che affioravano in maniera naturale, risultato di esperimenti che in ogni caso portavano a una scoperta, a una novità. Oggi si perseguono delle tecniche e delle metodologie per ottenere dei risultati ben precisi, ideati e programmati in precedenza. Questo da un lato permette la realizzazione di musica più matura e coesa, dall’altro ci fa perdere quella scintilla infuocata che caratterizzava il materiale di 20-25 anni fa.
Si va dalla chill out ai decolli deep house, passando per quei benedetti territori ambient dove electro e breakbeat si dividono la scena a margine di melodie eteree, dosando grandi momenti di riflessione e altri fondati sul groove, con tutto quello spettro sonoro fatto di vetri colorati, grandi legni percossi, gommose evoluzioni di basso e incursioni vocali minimali. Un album che è un autentico bignami pronto a farvi ripercorrere con genuino calore tutte le sfaccettature del suono che diede lo start al grande periodo europeo, quello dell’house e della techno, dei grandi raduni, delle chillout room e dei colori, negli abiti, nei volti e nei cuori.
AMBIENT
MASSIMO VIVONA, Breathe (Carpe Sonum Records)
Quanti si ricordano di Massimo Vivona? Indomabile produttore techno/trance che durante gli anni ‘90 dispensò groove marmorei a bordo della sua personale navicella Headzone, per poi arrivare in territori europei come quelli della Fax del compianto Pete Namlook o passando per la statuaria Frankfurt Beat. Nato in Italia, ma sempre vissuto in quel di Los Angeles, Vivona è stato uno di quei cavalli sicuri, post-rave, che rifornivano i set di gente come Sven Vath o Pascal F.E.O.S.. Non so di preciso quale sia stata la sua evoluzione dopo aver scavalcato il millennio, ma è un piacere enorme trovarlo adesso con un nuovo album pubblicato dalla sotterranea Carpe Sonum Records, etichetta americana che sta svolgendo un ottimo lavoro nei territori ambient, prima coinvolgendo i migliori nuovi nomi del panorama mondiale, poi chiamando artisti affermatissimi (e dimenticati dalla maggior parte delle persone) come David Morley, Thomas P. Heckmann e ora Massimo Vivona, chiedendo loro di realizzare album (da pubblicare rigorosamente su cd) di materiale ambient mai pubblicato prima. La risposta di Vivona è articolata in sei pezzi lunghissimi che sembrano un brano techno organico senza le partiture ritmiche e i groove. Qualcosa di multiforme e melodioso che lascia affiorare l’eco di vecchie nottate passate a strapazzare i sintetizzatori per modulare un suono vivo e ricco di elementi, frutto di una passione che tendeva a esternare in maniera forte tutti i sentimenti riversati nella musica. Un disco ambient con l’ardore della trance e dell’acid, una musica che a qualcuno potrebbe ricordare il periodo ambient di Can Oral e Ingmar Koch con i loro innumerevoli pseudonimi, dietro ai quali hanno costruito alcuni album poi passati alla storia. Vivona riesce – con la maestria di chi ne sa tanto – a proporre un lavoro sofisticato ed emozionante, in grado di far vivere un déjà vu ai fedeli techno della prima ora e a far scoprire un universo sonoro oggi dimenticato a quanti hanno approcciato alle sonorità elettroniche nell’ultimo decennio.
IDM
JAMES SHINRA, Vital Heat (Analogical Force)
Etichetta discografica madrilena fondata nel 2015, la Analogical Force sin dall’esordio ha lavorato con estrema professionalità, curando nel dettaglio tanto il lato prettamente musicale quanto quello comunicativo, riuscendo in tempi record a ritagliarsi un suo pubblico fidelizzato che attende con trepidazione ogni nuova release. D’altronde il livello qualitativo della musica proposta è sempre stato altissimo. Sono molti e anche importanti i musicisti che hanno contribuito a questo successo, dai fratelli D’Arcangelo a Brainwaltzera, passando per Mu Ziq, Kettel, Pye Corner Audio e molti altri ancora, e altrettanti gli sconosciuti o emergenti, selezionati anch’essi con estrema attenzione, ad esempio musicisti come James Shinra, che dopo qualche anno di gavetta con alcune netlabel è approdato sulla Analogical Force con un primo ep intitolato Meteor (2017), per poi replicare con Supernova appena un anno dopo e ora con questo doppio debutto, quello suo personale e quello della Analogical Force (che finora aveva pubblicato soltanto singoli) sulla lunga distanza.
James dimostra maturità e idee ben chiare, costruisce brani complessi basandosi su apparati ritmici spezzati e grandi melodie suonate al piano, mentre lega il tutto con degli arpeggi e delle linee di basso sempre pungenti e cavernose. Molto vicino ai vecchi album di Kettel, ma con un’attitudine alla melodia più sviluppata ed una gestione delle varie componenti equilibratissima. Musica che sembra non cercare mai il punto di rottura, bensì di trattenersi in un limbo ben circoscritto nel quale combinare insieme tutte le possibilità che un dato insieme di suoni è in grado di permettere.
Nulla di innovativo, intendiamoci, ma a ben vedere non credo fosse quello l’intento, piuttosto forse c’era la volontà tirare una linea su un passato fatto di studio e continui esperimenti per arrivare oggi ad avere una padronanza eccellente della materia elettronica in chiave ambient-electro-breaks.
ELECTRO / TECHNO
RINGS AROUND SATURN, S/t (brokntoys)
Ci girava intorno da tempo, Rory McPike, e infine ecco qui il suo album di debutto sulla londinese brokntoys, etichetta d’assalto impostasi sul mercato con una serie asfissiante di dischi electro e techno (in alcuni casi grandiosi) che ne hanno delineato la mission in maniera impeccabile. Rings Around Saturn è una delle varie incarnazioni del produttore australiano, musicista che ha fatto valere il suo talento in lungo e largo con una sequenza di produzioni sempre affilate e ideate per abbattere i confini tra groove e sperimentazione. Il suo raggio d’azione va dall’ambient all’electro passando per techno, house e acid, generi che maneggia con disarmante disinvoltura, trovando sempre il giusto compromesso tra soluzioni maggiormente orientate al dancefloor e altre d’ascolto. Quest’album di debutto esce come doppio dodici pollici ed è forte di una potenza espressiva che rispecchia tutta la creatività e il senso musicale nutriti nel tempo dall’artista, visto che ha un suono figlio delle lezioni funk ed electro degli anni Settanta e Ottanta, ma rinnovato e rivolto alla modernità. Dopo la partenza in bolle ambient di “Saturnine”, si passa per i ganci electro in salsa dub di “Pulp Tech” volando sopra le distese cibernetiche di “Apocalypse Lite” ed “Event Strike”, per poi alzare il tiro con la virata verso lo spazio di “Perfect Crime”. “Online Spectre” centra una melodia di fuoco in uno di quei perfetti ibridi ambient-electro capaci di fondere insieme memoria e prospettiva: qui inizia una fase più introspettiva dell’album, seguita dalla cavalcata techno-soul di “World Interior” e dalle atmosfere sci-fi di “Uncanny Soul”. “Non Place” è un arpeggio appartato che sembra voler far prendere respiro al disco, che termina con “Automatic Memory” e “Mirage”, il primo un pezzo electro in chiave soundtrack, il secondo un fragile saluto che tiene insieme in maniera certosina il suono del piano e alcuni polverosi riverberi dallo squisito sapore orientale. Sorprendono la coesione tra i brani e la capacità di traslare tra suoni e visioni mantenendo altissimo il livello qualitativo. Un grande lavoro per concludere al meglio quest’anno che volge al termine.
DOWNTEMPO / BALEARIC / HIP HOP
HALFBY, Last Aloha (Second Royal)
Torna con un nuovo album il produttore giapponese Takahiro Takahashi, veterano del suono strumentale con contaminazioni hip hop: nel corso della sua storia, infatti, ha sperimentato con risultati strepitosi un sound caldissimo fatto di campionamenti e arrangiamenti sempre volti a creare atmosfere sontuose e ricche di pathos, ma allo stesso tempo ludico e non troppo impegnativo. Ha un legame strettissimo con la Second Royal, etichetta per la quale ha pubblicato gran parte dei suoi lavori e che prosegue la relazione anche per Last Aloha, successore di Innn Hawaii che (il titolo lo lascia presagire) riparte da quelle geografie per sviluppare tredici nuovi scorci sonori perfettamente aderenti alle sensazioni che la regina delle isole sa emanare con tutto il suo carico di leggende, storie e atmosfere. Un suono liquido che scivola tra le pieghe dell’aloha sound originario, interpretato con gusto ed eleganza, e miscelato con echi di musica fusion giapponese per un intrigante connubio capace di affrescare il cielo grigio di dicembre con i malinconici colori di un tramonto di fine estate.
AMBIENT / BALEARIC
NORTHENER, End Of The Holiday (Home Assembly Music)
Terzo album per Martin J. Cummings, in arte Northener, che insieme al fratello Barrie e a Richard Adams ha fondato la sempre interessante Home Assembly Music, etichetta discografica dedicata sostanzialmente a sonorità ambient più o meno “organiche”. Northener torna con un nuovo lavoro che si ricollega alle sue prime produzioni, rimettendo dunque al centro il suono della chitarra, che in questo End Of The Holiday traina tutti i brani, cercando di rappresentare nella maniera più diretta possibile quel rito di passaggio espresso nel titolo stesso dell’album. Un album, dichiara l’artista, ispirato da recenti viaggi in Catalogna, per il quale ha ricreato un flusso malinconico che discende dalle meravigliose composizioni ambient-new age spagnole dei primi anni ‘90 per concedersi anche divagazioni baleariche sulla scia dei primi sfavillanti tramonti del Cafè del Mar. La chitarra, dicevamo: accordi delicati che accompagnano un suono elettronico tenue, creando episodi ambient che spaziano da soluzioni più meditative come “Principi”, “Nomes Jo”, “Perque T’Estimo” e “A L’Estiu El Nostre Pare Ens Va Deixar” ad altre in cui batteria e percussioni risvegliano sensi più pratici e tangibili come in “Final D’Estiu”, “Dijous” e “Una Nocio”. Nonostante il range di suoni scelti e le armonie generali mantengano un focus costante sulla tipica malinconia da fine estate, Northener riesce a tenere in piedi tutte le composizioni senza mai stancare o sembrare in qualche modo ridondante. Ogni pezzo mostra delle peculiarità uniche, riuscendo quindi nell’intento di raccontare di volta in volta una storia diversa.
AMBIENT
JAKOB SCHAUER, Antlitz (Moozak)
Album di sottile e complessa bellezza questo di Jakob Schauer, artista austriaco che utilizza il mezzo sonoro per esperimenti nei quali processa geometrie e campionamenti per dar vita a musica con un forte legame con gli spazi. Coi suoi brani avrete la sensazione esatta di ascoltare un flusso che va ad occupare l’ambiente circostante, rimbalzando sugli ostacoli, aderendo perfettamente alle pareti, adattandosi a variazioni, vuoti, angoli e intercapedini. Atmosfere che sembrano rievocare traversate burrascose in nave, con gli oceani a bramare in sottofondo. Sembra di assistere alla riproduzione di qualche grande disco pubblicato dalla Miasmah, stessa accuratezza nelle composizioni, stesso potere evocativo. Una complessità costruita passo passo, partendo talvolta da semplici note di piano per poi aggiungere strati di suoni pre-registrati, tappeti sonori nebbiosi o rumoristica di fondo, il tutto seguendo delle logiche compositive che riescono a regalarci, senza mezzi termini, musica bella da ascoltare, non fine a se stessa, ma in grado di comunicare in maniera diretta le coordinate del suo viaggio. Se state cercando un disco che possa soddisfare la vostra esigenza di evadere durante i rigidi mesi invernali, è questo.
AMBIENT / SOUNDSCAPES
LIGOVSKOÏ, Esam (Field Records)
Duo composto da Nikolaï Azonov e Valerio Selig, il cui debutto, per la giapponese IL Y A Records è stato uno dei dischi che ho ascoltato di più nel 2013, insieme al secondo, sempre della stessa etichetta, composto da Philipp Priebe. Un vero peccato che dopo questi due album la IL Y A abbia smesso di pubblicare.
Musica ambient totalmente immersiva, che tende a ricreare paesaggi sonori che risvegliano la componente emotiva dell’ascoltatore, inducendolo a staccarsi dalla realtà per seguire le vibrazioni. Dopo l’esordio intitolato Samothrace (nome di una delle isole greche vicine alla Turchia) e pubblicato su supporto cd, è la volta di Esam, che prende il titolo dal nome di una montagna situata sulla Luna ed è questa volta stampato dalla Field Records, etichetta che ha sempre avuto un rapporto bellissimo con la musica ambient, occupandosi di artisti come Isorinne, D.Å.R.F.D.H.S., Kiyoko ed altri ancora. È ora un vinile ad ospitare tra i suoi solchi questa nuova avventura con la quale i francesi ricompaiono sulle scene con una miscela oscura e totalizzante fatta di infiniti pad che saturano lo spazio e sui quali albergano forme di vita di varia natura, da registrazioni ambientali a triangoli delicatamente percossi, da synth che emanano astratti getti sonori ad arpeggi che rotolano verso l’infinito creando una sorta di effetto trance, o ancora in linee di basso suadenti che sembrano ondeggiare su questi infiniti paesaggi lunari. Un ascolto a volumi adeguati, con un impianto di qualità e la giusta atmosfera, e sarete ripagati con una fuga temporanea dal vostro corpo terreno.
AMBIENT / TECHNO
SLAM, Athenæum 101 (Soma Records)
Ascoltare un nuovo disco degli Slam è come aprire una bottiglia di vino che si conosce bene e continuare ad apprezzare con intima soddisfazione ogni sorso. Esattamente quel che accade con la loro musica, proveniente da quei benedetti anni Novanta che li hanno battezzati, visti crescere e dispensare dischi sempre fedeli ai loro ideali, quelli di una musica confidenziale, dark e armoniosa che ha saputo rielaborare il verbo techno e quello ambient plasmandolo con idee rinnovate con freschezza nel tempo. Una discografia corposa, sempre impressa col marchio della Soma Records, etichetta co-fondata da loro stessi. Athenæum 101 è il nome scelto per questo nuovo album, ventuno brani mixati insieme e pubblicati per il momento soltanto in formato cd: un corpo sonoro pregiato, senza sbavature, in grado di raccontare la techno attraverso la stesura di materiale semplice e diretto, privo di eccessi, un filo conduttore lungo e ipnotico che alterna momenti di looping cristallino a oscuri segmenti tribali, passando per distese di 303 e orge di drum machine, legando insieme i vari ingredienti con arrangiamenti pacati e con un sound design votato alla musica ambient. Uniformità, equilibrio, gusto, tecnica e tanta esperienza miscelate in un continuum ammaliante che sembra rievocare gli album della Fax +49-69/450464, conditi con la cura nel dettaglio dei Voices From The Lake e la ricerca atmosferica della Silent Season. Regalatevi un’ora nel più recondito degli abissi techno.
SINGOLI
DEEP HOUSE / ATMOSPHERIC
NAOHITO, Horsehead Nebura (Foureal Records)
Il giapponese Naohito Uchiyama, attivo dai primi anni del 2000 con una serie di album di preziosa fattura (a discapito di una meno nutrita lista di singoli), è un vero talento nel creare atmosfere: si va dall’ambient alla deep house con un occhio di riguardo per le melodie. Non avevamo sue notizie da qualche anno, fino a quando la Foureal Records non ha annunciato il suo gradito ritorno. Ci accoglie sul primo lato con “Horsehead Nebura” un solforico antro deep-dub che avanza deciso accompagnato da un vigoroso rinforzo di basso, con la tensione tenuta alta da una lastra sintetica estesa all’infinito e da una batteria elettronica che scandisce battiti nelle retrovie. Il secondo brano, “Purple Vale”, incontra una ritmica spezzata e dei suoni di contrasto tenebrosi, avvicinandosi ad alcune composizioni di Sven Weisemann con il suo pseudonimo Desolate. In chiusura il brano “Menzele”, che ritrova il calore dell’organo per regalarci un classico abbraccio deep house da proporre nei momenti da club più ispirati.
ACID
RUDE 66, The Witch Trials (Arma)
Acido che graffia via intonaci e pareti per il ritorno su formato ep di Ruud Leks, in arte Rude 66, storico ambasciatore del deviato suono elettronico olandese. Di sconvolgente lucidità il brano d’apertura “Werewolves And Poisoners”, con i suoi fantasmi oscuri nelle retrovie che stendono una base vellutata sulla quale la Roland TB 303 combatte la sua guerra in un contesto techno rituale ed estremo. Accelerazione in crescendo su “The Crusade Against Idolatry”, che parte con un susseguirsi di ribollii ampollosi per poi esplodere in un getto techno ipnotico e tentacolare. “The Absence Of Diabolism” è un tenebroso anfratto ambient con un vociare di fondo e delle bassline che escono dal nulla come laser a spezzare le nebbie. “Envious Are All The People, Witches Watch At Every Gate” è un’emissione electro alchemica che costruisce un grottesco scenario medievale, legato alla perfezione al tema stesso dell’ep, ispirato – come racconta Leks – dal periodo della caccia alle streghe. Si tratta di una selezione di brani che appartengono a periodi diversi della carriera di Rude 66, ma che trovano equilibrio e coerenza in The Witch Trials, una fresca boccata d’aria che sarebbe bene prendere più spesso.
ELECTRO / TECHNO
DARREN NYE, Caldwell 39 (Nebulae)
Terzo appuntamento con la giovanissima Nebulae, che dopo l’eccezionale ep di Scape One ci propone un nuovo dodici pollici composto da Darren Nye (altro nome da tenere d’occhio per quel che riguarda sonorità electro-techno) che non delude le aspettative, sfornando quattro brani intrisi di sentimento e fantasia. Electro-downtempo con finiture acidule e grandi suonate di sintetizzatori ad aggrovigliarsi intorno a un ossuto corpo ritmico. È ormai chiaro che ci troviamo dinanzi ad una nuova primavera per ciò che concerne il suono electro, con un manipolo di artisti intenti a teorizzare e poi mettere in pratica nuove soluzioni musicali per ricominciare a sognare universi non ancora scoperti, con la forza dell’immaginazione supportata da questi ascolti corroboranti.
TECHNO / ACID
UNCRAT, A Present For My Plant (Proper Line)
Quattro brani autoprodotti e stampati su vinile nero da Donato Liuzzi (Uncrat) per l’esordio della sua Proper Line, che ci mostrano qualcuno in grado di maneggiare la materia techno con sano rispetto del groove, articolando delle stesure multiformi animate da pad sinistri, umori noise, risonanze metalliche industriali e vocal infernali. “A Present From My Plant” esce fuori con tutta la sua violenza dopo una brevissima intro che protrae poi il suo suono lungo tutto il pezzo, intervallato da una voce distorta che alimenta la pressione già di per sé altissima. “Finn MacCool” è un gioco ritmico più complesso, pieno di raddoppi e ancora vocal che intervengono a mo’ di elementi di rinforzo, il tutto sotto una pioggia infuocata di suoni sintetici. “Nemesis Riot“ è ancora più diretta: qui è un gioco a due tra drum machine e spaventosi lamenti. “Uncr83d (On Acid)” sparecchia la tavola con delle bordate acide che sovrastano un rudimentale impianto tribale. Per shackerare ogni dancefloor.
EXPERIMENTAL / HIP HOP / JAZZ
ADMIRAL, Cash On The Line (Wandering Eye)
Nuovo gioiellino appena pubblicato dalla Wandering Eye, etichetta gestita da Panoram che continua a non sbagliare un colpo. Con quest’uscita intitolata Cash On The Line ci presenta un musicista, Admiral, il quale sembra esordire proprio con questo ep che combina in maniera esplosiva sei brani di beat selvaggio uniti all’intraprendenza del jazz e alla potenza del funk più stralunato.
L’ingresso nel cosmo è scandito dalle note dell’iniziale “Pearl Diver” un arpeggio celestiale che appare e scompare sul suono luccicante di una tastiera galattica. “Halfraw Meat” è una jam devastante tra batteria e cascate di tastiere con tanto di vocale tenebroso nel bel mezzo della furia esplosiva. “Lonely Palms Couch Party” un emozionante interludio melodico perso tra equalizzazioni sbilenche e una potente melodia che esce allo scoperto tra i beat disordinati. “Magic Mentor” uno strano fungo composto da un mood fusion tardo ‘80 e da splendido “spleen” digitale. “Soho Girl” un abbagliante fraseggio hip hop illuminato da comete space-funk… e “You Left Me Empty” ancora jazz denso in una notturna e fumosa istantanea da club. Quanto splende questa musica!
ELECTRO
JUNQ, COG002 (Art Mechanical)
Attendevamo il secondo disco della Art Mechanical dal 2013, quando il suo fondatore, l’inglese Junq, ci regalò quell’incredibile esordio acid-electro divenuto poi vero culto del genere. E finalmente eccoci ad ascoltare l’attesissimo sequel, che promette di mantenere inalterata anche la proposta di una limited edition con il packaging creato assemblando un origami di cartone.
Replicata la formula dei tre brani come nella prima release: si inizia con i nove minuti di “Abacus”, nebulosa notturna dalla quale emergono bordate percussive e filamenti elettrificati che vanno a comporre un ricercato disegno electro-ambient diviso tra la furia di alcuni affondi ritmici e la pacatezza di altre sospensioni astrali. “Nocturnal Habits” parte con un lungo e instabile tremore, poi soffocato da una melodia da colonna sonora horror, poi voci robotiche, poi manipolazioni e onde astratte; nel mezzo una nenia dal basso che ne concreta lo spaventoso richiamo. “Sync” è ancora un incubo vissuto tra le viscere dell’inferno con l’acido della bassline che gorgheggia furioso tra basse profonde e tastiere convulse. Ci ha fatto aspettare, ma ne è valsa la pena.
EXPERIMENTAL / TECHNO
CYD, Disassemble Yourself (e-missions)
Emozioni digitali ad alta definizione quelle che scaturiscono dall’ascolto di questo strambo ep pubblicato dalla e-missions, etichetta americana forse mai così esposta alla sperimentazione. Lastre di suono disallineate che aumentano l’intensità insieme a tappeti vaporosi di note, beat hip hop astratti che si schiantano su muri di arpeggi: oggi la chiamano Vaporwave ma, volendo uscire dalle definizioni, ci troviamo di fronte a musica meditativa, fonte di ricordi e generatrice di pensieri, moderna nel modo in cui è assemblata, vintage nell’utilizzo di timbriche che lasciano affiorare un lontano senso di appartenenza. Brani che balzano noncuranti da calme derive marine a furibonde tempeste di tuoni, unendo questi opposti scenari sotto un raccordo musicale sempre in grado di generare emozioni. Dopo l’apprezzato album di debutto dello scorso anno, il polacco Karol Kazmierzewski riesce a replicare con questo scorcio sonoro ricco di prospettiva e di umana speranza.
ELECTRO / EXPERIMENTAL
JFRANK, Faulty Source Monitor (The Irrational Media Society)
Jfrank è parte del collettivo Distant Future (crogiuolo di competenze artistiche che spaziano dalla musica al design), il cui obiettivo è quello di muoversi seguendo estetiche che possano far intendere un’idea creativa e una visione di futuro. È un produttore navigato, che ho conosciuto grazie al mini-album Spatial Orbit Intersection, pubblicato nel 2016 dalla londinese Pyramid Transmissions. Ora tocca a questo nuovo ep stampato in sole 100 copie dalla The Irrational Media Society, nel quale continua l’esplorazione celeste con quattro brani dove groove e sperimentazione flirtano a cavallo di altrettanti canovacci electro hi-tech, sorprendenti per la moltitudine di sonorità e cambi di ritmo gestiti.
Il primo stacco, “Deeper Field”, segna l’ingresso nel wormhole con l’oscurità interrotta da improvvisi bagliori, led sgangherati e laser accecanti che trapassano una maglia ritmica intricata che reclama l’ardore del funk mentre viaggia verso una galassia lontana. “Rot One” è una cavalcata esplorativa con le drum machine a buttar giù movenze regolari tra un break e l’altro, mentre le macchine continuano liberare orge di sonorità astratte fino alla completa saturazione. “7th Satellite” è l’uscita dal tunnel: un suono cristallino ci accoglie per poi infrangersi contro un synth graffiante che decostruisce l’avvio idilliaco. Polvere di stelle ad abbagliare lo spazio in “Sleeper Service”, stratificazione sensoriale che isolerà la vostra essenza facendovi sentire al centro di un vortice sonoro stimolante e avvincente.
Si discute molto su quale sia la direzione da intraprendere per creare musica che possa esser definita nuovamente futuristica: a mio avviso è l’approccio a essere sbagliato, specialmente quando ci si ostina a cercare un paragone temporale con l’avvento della techno. Una musica può dirsi futuristica quando non convenzionale, in grado di assorbirci e di farci astrarre al punto da permetterci un pensiero nuovo e privo di condizionamenti. Con Faulty Source Monitor ciò può accadere.
RIPESCAGGI
HOUSE / TECHNO
RHYTHM OVERLOAD, For Bone-Shakers (Seventh Sense Records, 1992)
Erik van den Broek preso nel bel mezzo di quello squarcio temporale che l’ha visto essere uno degli artefici della mattanza techno e house europea. Un eroe mai troppo celebrato, autore di alcune delle più belle pagine di genuina dance music. Mille pseudonimi, ep a pioggia, il groove stampato nel dna, uno di quei produttori in grado di far muovere le chiappe anche a una testuggine marina. Questo micidiale For Bone Shakers contiene tre brani intenti a far capire al mondo quanto la lezione “chicagoana” e quella “detroitiana” siano state assorbite e metabolizzate completamente nel Vecchio Continente: in particolare, questa partita si gioca interamente sul lato A, occupato da “The Home Of The Music”, un’altalenante scorribanda post-rave-acid intervallata da rocambolesche pause da un grottesco groove in chiave funk. Ogni cosa è al suo posto, dall’organo che intona i momenti di vuoto fino alla ritmica che spinge la bassline in paradiso. Se è vero che l’house e la techno si sono fatte attraverso grandi, isolati momenti, questo è decisamente uno di essi.