All’ombra del vulcano – viaggio “impossibile” nella galassia underground napoletana
Napoli conserva da secoli storie ed eredità culturali pesanti quanto profondamente intrecciate tra loro. Quella che state per leggere è una sorta di “mappa” che non ha lo scopo di essere esaustiva e non intende segnalare le tappe più conosciute. Vuole essere invece una “cartina” contenente dei punti di osservazione/ascolto diversi dai soliti; la testimonianza, si spera il più veritiera e profonda possibile, di quanto la città è riuscita ad esprimere nei campi del “rumore” e della “ricerca”. Ci soffermeremo infatti su quegli artisti e addetti ai lavori che si sono distinti in questi particolari ambiti.
Veloce refresh storico e doverosi distinguo
Resta difficile trovare dei collegamenti diretti col passato. Si può di certo fare riferimento alla decisiva influenza che ebbe nel secondo Dopoguerra del Novecento l’esercito americano, che portò il blues e il rock and roll, vanno citati almeno James Senese, sassofonista (passato per gli Showmen) e tra i maggiori protagonisti del cosiddetto fenomeno del “Napoli Power”, e il versante progressive-rock, con gli Osanna e Il Balletto Di Bronzo. Nel frattempo si distinguevano pure Jenny Sorrenti coi Saint Just e il fratello Alan (quest’ultimo può vantare una carriera tanto folgorante quanto problematica), dimenticandosi letteralmente di Luciano Cilio. Arrivano poi gli Ottanta, col lovely-pop della meteora Panoramics, prodotti da Peter Gordon, sodale di Arthur Russell. In contemporanea si evidenzia una prima “frattura”: ai linguaggi musicali sopracitati probabilmente non viene riconosciuto un ruolo di particolare influenza, c’è quindi chi decide di mettere sul campo le nuove pratiche dell’autogestione (fondamentale resta l’avvento del punk, in particolare quello di matrice anarchica) e contribuisce alla nascita dei centri sociali (il Tien’a Ment e l’Officina 99), luoghi di aggregazione e “pensare sociale” ancora più alternativi rispetto ai cosiddetti “locali” (prima il Be-In, poi ZX e Diamond Dogs, stiamo parlando di realtà molto diverse tra loro, ma decisive per comprendere le più diverse anime di Napoli); a tal proposito sentiremo una voce che opera tutt’oggi con questa forte convinzione. A Novanta inoltrati c’è poi il dilagare dell’elettronica, che vede l’affermarsi della pratica dei rave, cresciuti attorno alla capillare (e meno costosa) diffusione delle tecnologie più recenti. Pochi invece gli esempi nell’area più estrema del metal: ricordiamo almeno gli Undertakers, rispettato act attivo dai Novanta in ambito death-metal. Restando in quel decennio sarebbero da registrare il fenomeno delle posse e il recupero di certe radici, quelle legate alla passione per la parola e il ritmo, con tutta una schiera di musicisti impegnati a fare da esempio: da Enzo Avitabile a Bisca, 99 Posse e Almamegretta. Ma queste sono decisamente altre storie.
Va aggiunto che sarebbe ridicolo avere la pretesa di raccontare “tutto” di una città peraltro “irraccontabile” per antonomasia, ad esempio non troverete nessun particolare accenno alle “scene”: le “scene” spesso sono una giustificazione per ascoltatori pigri ed esperti di marketing, soprattutto non si addicono ad una metropoli come quella presa in esame. In fin dei conti il mio intento principale resta quello di fare da tramite tra le testimonianze (le più diverse) che ho raccolto tra i miei contatti, ai quali ho chiesto la loro personale versione dei “fatti”.
Ultima precisazione: oltre che di Napoli, di cui non voglio dimenticare, restando in ambito strettamente underground, il lavoro di un chitarrista come Vincenzo De Luce (Drowning In Wood e Wander), o l’interessante attività di booking svolta da Wakeupandream, ci sarebbe da raccontare di altre realtà importanti per la regione, penso a festival come Flussi ad Avellino, giovani espressioni artistiche come la salernitana OHMe (che organizza ottimi concerti) e agguerrite etichette come la Manyfeetunder. Come non menzionare poi una band di outsider per eccellenza: i casertani Klippa Kloppa (fermi da qualche tempo). Anche queste però sono altre storie, che magari cercheremo di approfondire in futuro…
Le testimonianze
Ci avviciniamo gradualmente alla città partendo più a sud, dall’altra parte del Vesuvio, da Pompei per l’esattezza, celebre per uno dei più importanti e visitati scavi archeologici del mondo. Lì vive ed opera da anni Lino Monaco, assieme a Nicola Buono nei Retina.it. Monaco ha fin dagli anni Ottanta frequentato assiduamente il capoluogo e può raccontarci molte cose a riguardo.
Vieni dalla provincia, da Pompei per l’esattezza. Cosa ti colpiva di Napoli quando ci facevi le prime incursioni? Raccontami dei concerti che vedevi e degli artisti/situazioni che più ti hanno segnato.
Lino Monaco: In realtà ho mosso i miei primi passi a Salerno, dove c’era una fervente scena post-punk già dagli inizi degli anni Ottanta, parlo di band come gli Spleen Fix, Voices e False Promesse, gruppo al quale ero legato per via di una buona amicizia con Maurizio Martinucci aka Tez. Ho iniziato a frequentare in un secondo momento Napoli, mentre avevo una buona idea di quello che accadeva a Salerno nel piccolo club Panda. Era il 1983, circa, quando assistetti a uno dei miei primi concerti al Pulsar di Napoli, la band era quella dei Bisca agli esordi, con la sua miscela di sound no-wave. Della scena napoletana mi arrivavano voci sui posti dove si faceva musica. Appunto, prima del Pulsar c’era un posto chiamato ZX, dove mossero i primi passi gli Elettrocrazia, di lì a poco divenuti Contropotere, e i leggendari Underage, prima band hc napoletana che riuscì a stampare un 7″ su Attack Punk Records dell’allora Jumpy Velena. Il disco ebbe una buona risonanza, tanto da essere posto in una classifica personale di Jello Biafra su Maximum Rocknroll. Tra l’altro il batterista, Davide Morgera, di lì a poco creò la label Energeia, per la quale pubblicammo con la mia prima band: i Voxzema.
Parlare di provincia in quegli anni è un po’ come raccontare il vuoto. Pompei, essendo una città appunto di provincia, e pur avendo un nome altisonante, non aveva posti di aggregazione dove si potesse assistere ai concerti. D’altronde non c’era nemmeno una grossa cultura musicale. Nonostante questo vuoto riuscivo, con la mia ostinazione e l’aiuto di pochi amici, a trovare qualche locale disponibile a farmi organizzare serate. Erano per lo più piccoli pub o discoteche che di solito proponevano disco-music.
Contemporaneamente a Napoli nasceva il Diamond Dogs, lì ho visto il concretizzarsi di un’idea. Era un posto bellissimo ricavato nel sottosuolo, fatto di tufo. Un dedalo di caverne alle quali si accedeva da un cortile sotto un “basso” (tipica abitazione napoletana a piano terra). Il DD, detto anche Officina Postindustriale, sembrava un ricettacolo di umanità trasversale, di un “popolo del sottosuolo”, una razza degna di un capitolo dalle scritture di Thomas Pynchon o William Gibson. È qui che sono passate band come Cristian Death, Diaframma, Not Moving e moltissimi altri di cui non ricordo i nomi. C’erano serate dal mercoledì in poi, ma quella che più attirava la mia curiosità era la più sperimentale condotta da Nicola Catalano. In una di queste c’erano di scena i live di Lyke Wake e Ain Soph. È sulle note di violini anarmonici, elettronica e canti in una lingua incomprensibile che davano più l’idea di letture recitate di testi esoterici, che l’aria divenne sulfurea e claustrofobica: sembrava quasi che in quelle grotte scavate nel tufo le esalazioni arrivassero direttamente dal magma proveniente dalle viscere della terra. Tra l’altro è da poco uscito un libro di fotografie scattate al Diamond.
I tuoi ascolti sono la wave, l’elettronica e l’industrial, giusto?
Erano di quel tipo negli Ottanta… Riuscivo ad avere idea di ciò che usciva nel panorama underground grazie a Rockerilla, unico magazine decente che arrivava nell’edicola pompeiana. Aspettavo con ansia l’edizione mensile. Con una voracità comunque inappagata leggevo tutte le pagine alla scoperta di nuovi mondi. Ma la parte che più mi incuriosiva era la bacheca annunci. Lì ne trovavo di piccole realtà sparse in Italia: fanzine, libri, dischi e cassette autoprodotti lontani mille miglia dalle logiche di mercato. Un mondo di astrazioni e utopie che mi succhiava letteralmente il cervello. La potenza della comunicazione di una rivista riesce comunque a plasmare i gusti delle persone, ricordiamoci che in quegli anni internet era inesistente, eccetto per le BBS, o server di controinformazione ai quali accedevi se avevi un computer, un modem e soprattutto se eri un “nerd” a conoscenza di nuove forme di comunicazione. Non avevo scelta, dove abitavo – oltre a Rockerilla – arrivavano solo Mucchio Selvaggio o ancora Rockstar ed altre amenità heavy metal, e a ridosso degli anni Novanta anche queste finirono per fare un cambiamento di rotta spostando il loro focus sempre più verso il rock americano (grunge et simila), cosa che dapprima mi parve interessante, ma che subito decisi di archiviare. Trovavo sempre meno cose attinenti ai miei gusti musicali ed ideali, decisi di staccare la spina e smisi di comprare riviste prettamente musicali. Leggevo invece magazine di controcultura come Decoder o Neural che, oltre a parlare di musica, introducevano i rudimenti della “cyberpunk culture”. Durante questo decennio a Napoli avevamo tre bei negozi di dischi: Tattoo, Flying Records (dopo la prima metà degli Ottanta) e Demos. Che posto quest’ultimo! Ci trovavi i cataloghi della World Serpent, Torso, Industrial Records o Staalplaat, insomma l’antro “alchemico” di un mondo esoterico. E Genny (da non confondere con la figura odierna dell’omonimo soggetto protagonista della serie Gomorra) che ti aspettava alla cassa con quella sua assenza totale dalla “materialità”… Tutti a Napoli entravano in questo negozio con un timore reverenziale…
Prima dei Retina.it c’erano stati i Quiet Men. Com’era a quei tempi la realtà partenopea? Stiamo parlando dei Novanta… Cosa c’è ancora di interessante oggi in quel preciso ambito?
Quiet Men nasce nel ‘94. Da poco avevo abbandonato i miei compagni di avventura del progetto Cyb, dove ero il cantante. L’idea di ibridare la nostra musica con l’elettronica in un contesto tipicamente rock fu un po’ difficile da gestire. Avevo poca conoscenza delle macchine e quindi scarsa capacità di inserire nuovi tessuti sonori in un contesto simile. Prendevamo esempio da gruppi come i Ministry e Revolting Cocks, che uscivano per la chicagoana Wax Trax! Records. Non riuscendo nell’intento, decisi di fare un percorso autonomo, dedicandomi tutti i giorni allo studio di questi nuovi sistemi per comporre musica. È in questo periodo che incontrai Nicola, più giovane di me di dieci anni. Anche lui aveva idee prossime alle mie, per cui decidemmo di inoltrarci insieme in questo percorso. Siamo sempre nel 1994, e contemporaneamente nei vari centri sociali della città, dove spesso facevo dj-set, Tien’a Ment in primis e Officina 99, arrivavano i primi beat techno. Le “tribes” ed i “travellers” passavano al Tien’ a Ment, e tra i ragazzi napoletani c’era già chi navigava in sonorità di questo tipo e in universi più “futuribili”. Space Race o United Tribes (di recente questi ultimi hanno pubblicato un libro di memorie) erano quelli più attenti ai nuovi flussi di correnti europee. Grazie al loro impegno a Napoli passava il meglio della nuova musica elettronica. Tutta questa evoluzione era supportata dalle pubblicazioni della Shake Underground o da Neural. Erano un’ottima banca dati e schiudevano mondi paralleli fatti di cibernetica e nuove socialità.
Come veniva raccontata dai giornali, a quei tempi, la parte musicale napoletana più “alternativa”? Mi accennavi anche ad un fenomeno definito Vesuwave (c’è un documentario di Dino Luglio che si trova su YouTube, ma potete leggere un articolo sulla sua figura qui).
Credo fosse raccontata in modo pessimo. In quegli anni era appunto la Vesuwave ad essere trattata, con gli stereotipi che tutt’oggi conosciamo. Una memoria definirei indelebile, figlia di quegli anni Sessanta che ancora aveva una coda ben visibile nel panorama della musica nazionale degli anni Ottanta. Purtroppo questa visione non coincide con la mia o con quella di molti altri che cercavano derive in anfratti molto più inaccessibili al suono imperante. Pensa che durante quel periodo ci fu un caso eccezionale di un artista passato troppo sotto le righe e solo dopo circa trent’anni si è venuti a conoscenza grazie ad un’etichetta italiana attenta alle fenomenologie nascoste (la milanese Die Schachtel, ndr). Si tratta di Luciano Cilio, musicista dalla spiccata sensibilità del quale sono arrivate a noi composizioni che definirei avveniristiche, ma non è solo mia opinione… Era totalmente un outsider e un incompreso. Morì suicida nel 1983.
Si partiva sconfitti nel confrontarsi con un certo modello di musica, le nostre idee passavano sotto. Difatti oggi sopravvive solo una vaga memoria frammentata e soggettiva di quel mondo composto da scenari “altri”. Pochi reduci da quel passato fatto di cantine e locali sotterranei sono emersi a pieno merito, sebbene ancora qualcuno continui a suonare, ad esempio Bisca, Nino Bruno e pochissimi altri. Tuttavia c’erano cose davvero interessanti in circolazione, finite nell’oblio della memoria di pochi. Pensa che nel 1981 in una festa popolare nella provincia napoletana, precisamente a Mugnano, suonarono due gruppi seminali della scena post-punk inglese come i Killing Joke e i Virgin Prunes…
Dei Retina.it colpisce il fatto che avete pubblicato per etichette molto diverse tra loro, pure una cassetta per la Joy De Vivre, piccola realtà specializzata in tape di matrice noise. Come vi siete trovati in quella situazione?
Conoscemmo Francesco Tignola (dei Matar Dolores) in una passata edizione di Flussi (interessante festival con cadenza annuale che si tiene ad Avellino, ndr). Ci disse che gestiva una piccola tape-label e che gli avrebbe fatto piacere ospitarci nel suo catalogo. Dopo un paio d’anni si è rifatto vivo per concretizzare la proposta. È una realtà anomala, in un’area dove cantautorato/folk/dub/reggae e rapper vari dettano ancora legge. La sua è una scelta coraggiosa e credo vada premiata per lo sforzo. Non è però l’unica realtà “diversa” a Napoli; c’è il giro dei ragazzi di Perditempo che hanno un’estrazione simile, ma anche la Toxo Records di Mario Gabola e Mimmo Napolitano (SEC_), solo per citarne alcune. Tra l’altro recentemente Francesco mi ha chiamato per fare una serata a Napoli, dicendomi: “Ti andrebbe di fare un dj-set in un locale che negli anni Ottanta si chiamava ZX?” Il cerchio, insomma, si chiude…
Dicevo della forte eterogeneità delle proposte musicali partenopee. Non poteva certo mancare chi ha fatto parte di storici act in campo hardcore-punk, altro fondamentale linguaggio che animava il nostro underground e che probabilmente ha ispirato certe più rumorose proposte odierne. Ho contattato Davide Morgera, batterista degli Underage.
Gli Underage esordirono a inizio Ottanta. Eravate molto giovani, immagino. Cosa ascoltavate ai tempi e perché decideste di fare questo tipo di musica?
Davide Morgera: Sì, gli Underage iniziarono a suonare nel novembre del 1981 in pieno periodo hardcore punk, quando nessuno di noi aveva ancora compiuto i venti anni. Anzi, il più “vecchio” ero io, avevo 19 anni ed ero fresco di diploma. Volevamo fare punk, prima fu un’idea, poi diventò cosa concreta col passare del tempo, anche se non abbiamo mai negato che le nostre prime prove fossero abbastanza new-wave, poiché il nostro chitarrista Stelvio ed io eravamo molto amanti delle sonorità alla Killing Joke e P.I.L.. Questo è un aspetto che ci siamo portati dietro anche quando realizzammo il nostro ep per la Attack Punk Records, nel quale un brano come “Lager” è molto orientato verso un certo tribalismo. Ma la voglia di urlare la nostra rabbia, di suonare veloce e di far pogare chi veniva ai nostri concerti risultò vincente, una voglia che si unì a due eventi che proprio alla fine del 1981 sconvolsero l’Italia e a cui avemmo la fortuna di assistere: prima i Dead Kennedys e poi i Discharge, entrambi a Roma, mutarono il corso delle cose. L’hardcore era la nostra via! E poi anche lo stile mutato di Stelvio contribuì a tutto ciò. Lui veniva in sala prove e portava dei riff che avrebbero potuto tranquillamente fare i Discharge. La cosa bella era, però, che lui i Discharge, prima che li andassimo a vedere, non li aveva mai ascoltati!
Come vedevate Napoli in quel periodo? C’era un locale come il Riot dove suonavate, giusto?
In quel periodo Napoli non offriva poi molto rispetto ad altre realtà metropolitane italiane, era un po’ la periferia dell’Impero, anche se la nostra presenza era un punto di riferimento costante per tutto il punk italiano. Ti ricordo che, oltre alla band, io curavo le fanzine Megawave e Hate Again, che avevano un buon seguito. Se a Milano, Bologna, Torino e Roma c’erano già i centri sociali, noi ci accontentavamo di suonare nei “locali”, nelle discoteche dove si faceva new wave ed elettronica. Noi portammo il punk allo ZX, lo storico locale che ospitò noi e tanti concerti che organizzammo con altre punk band anche non campane. Quel locale diventò il punto di riferimento di tutta la scena napoletana prima ancora del Riot, che era comunque gestito politicamente dal PCI. Noi che ci professavamo anarchici non ci passavamo volentieri ed il ricordo non diventa bello neanche a distanza di tempo, visto che proprio al Riot facemmo il nostro ultimo concerto nel giugno del 1983.
Cosa pensi sia rimasto di quella musica in città, oggi? Lino Monaco ci ha raccontato che nell’hinterland ai tempi passarono in concerto Killing Joke e Virgin Prunes…
Purtroppo non è rimasto molto di quella musica oggi se non qualche vecchietto nostalgico come me che continua a comprare le nostre ristampe in cd e vinile. Napoli è troppo legata al rap, all’hip hop, al rock in generale e se dobbiamo parlare di musica alternativa da poter avvicinare all’idea di “punk”, allora farei una citazione e un plauso ai ragazzi del Tien’a Ment e di Officina 99, i due centri sociali sorti dopo il nostro scioglimento, che ancora oggi fanno qualche reunion e fanno suonare qualche vecchia band come i Randagi. I concerti di cui parli restano ancora oggi nella Storia perché furono eventi nati al di fuori del circuito alternativo, in primis perché fatti in piccoli centri e poi perché ad organizzarli fu il Comune. Quello che resta sono i lividi di un pogo memorabile che sconvolse un intero paese e noi che venivamo visti come degli extraterrestri…
Immagino che corrisponda al vero l’episodio citato nella pagina Wikipedia della band, dove si dice che a un certo punto venite tolti a forza dal palco dai romani Bloody Riot…
Purtroppo è così. Quando arrivammo a Bologna e dovevamo suonare insieme ad altre band italiane, di spalla agli inglesi Disorder, i romani Bloody Riot si appropriarono letteralmente del palco e decisero in modo molto “fascista” che la scaletta dei gruppi l’avrebbero scelta loro. Ti lascio immaginare le reazioni di tutti, ma soprattutto il danno che procurò al nostro “fragile” chitarrista, che prese il treno e da solo tornò a Napoli. Il giorno dopo ci comunicò che non avrebbe più continuato a suonare per quanto aveva visto. Fu così, e i nostri tentativi di reintegrarlo furono vani.
Raccontami dell’attività della tua etichetta, l’Energeia (in catalogo varie compilation e dischi di matrice industrial, gothic…). È ferma da un po’, se ho letto bene…
L’etichetta Energeia e la rivista Marble Moon hanno chiuso i battenti quindici anni fa ed è un dolore che ancora oggi mi fa stare male. Avevamo iniziato a lanciare band dark, elettroniche, industriali e gotiche e a importare dischi da tutto il mondo, eravamo diventati un punto di riferimento per tutto il movimento oscuro italiano. Non sono frasi di circostanza, sono cose che ti possono confermare tutte le persone che venivano ai concerti o alle fiere perché sapevano che c’era il nostro stand. Ci prendevano d’assalto perché le cose più particolari le avevamo in anteprima, dalla Germania agli Stati Uniti, dall’Inghilterra al Messico. Si era creato un bel giro di appassionati e clienti, non mettemmo più un soldo dopo l’investimento iniziale, tutto si stampava con i guadagni. L’unico rammarico, a distanza di anni, è che con la crisi nelle vendite forse avremmo dovuto chiudere ugualmente, ma il motivo reale fu la difficile coesistenza tra il mio lavoro e quello del mio socio (siamo entrambi insegnanti) e il tempo che ci voleva per portare avanti bene l’etichetta. Quando arrivammo al collasso, la scelta fu davvero dolorosa ma inevitabile.
Continuando a scavare nel passato ci si imbatte in altre incredibili esperienze, come quella dei Contropotere, sorta di “trovatori punk” legati a doppio filo ai circuiti dell’autoproduzione. Sentiamo cosa ha da raccontarci Adriano “BK Bostik” Casale, tastierista della band.
Adriano, fammi un po’ di storia dei Contropotere. Quando arrivano a Napoli e che situazione musicale si ritrovano davanti?
Adriano “BK Bostik” Casale: I Contropotere nascono nel 1985 da un cosiddetto “incidente di percorso”. L’incidente fu di tipo stradale e accadde in Austria quando la mia band pre-Contropotere (gli Elettrocrazia) in viaggio da Berlino per la Spagna a bordo del Transit nero venne travolta da un tir che spazzò via l’intera strumentazione e di conseguenza il tour. Miracolosamente illesi, ma appiedati e decimati, ripiegammo in Italia e in Veneto ricomponemmo la band, che sarebbe stata poi ribattezzata Contropotere. Dopo aver montato un po’ di pezzi con un chitarrista veneziano e un bassista padovano, approdammo nelle profonde lande venete dove ingaggiammo il batterista, Alli Papes, l’unico a restare di quella prima formazione “veneta”. Dopo aver messo su la prima scaletta nel 1986, in presa diretta e senza ripetizioni, registrammo Il primo demo “È Arrivato Ah Pook”, citando un testo di William Burroughs. Il demo fu offerto senza alcun profitto alla fanzine anti-militarista Urban\Insubordinazione Totale. Attraverso la diffusione della fanzine, i Contropotere diventarono subito il gruppo punk impegnato più richiesto dal movimento di occupazione. In uno dei primi scalcagnati tour approdammo anche a Napoli, dove suonammo in un localino frequentato da “punx”. Il movimento punk napoletano era già allora ben rappresentato grazie anche agli Underage, che erano presenti sin dai primi anni Ottanta nella scena punk nazionale.
I Contropotere in quasi dieci anni di attività hanno fatto centinaia di concerti in tutta Europa; hanno registrato demo, dischi, cd, video e infiniti audio-tape, oltre ad aver messo su un’etichetta di autoproduzioni, Agente Provocatore, con decine di lavori audio e video distribuiti in tutto il mondo.
La band negli anni ha avuto una serie di cambiamenti di line-up e di conseguenza di tipo stilistico: siete passati dall’hardcore-punk degli esordi a forme più vicine all’industrial e all’elettronica. Interpreto bene, giusto?
“Il potere che ognuno di noi ha come potenzialità di trasformazione, contro tutte le forme di potere imposto: CONTROPOTERE”. Lo slogan della band è un po’ il leitmotiv che ha guidato e guida tuttora la nostra vita artistica e politica. La trasformazione continua alla ricerca di nuove forme musicali è la formula ricorrente nelle nostre produzioni. Dall’hardcore-punk degli Ottanta, “Nessuna Speranza Nessuna Paura”, al progressive punk dei Novanta, “Il Seme Della Devianza”, al cyberpunk dell’ultimo cd, “Cyborg 100%”. In quest’ultimo, oltre a ricercare nuove formule e contaminazioni musicali, i Contropotere operano una sperimentazione attraverso le nuove tecnologie, arrivando in maniera estrema, fedeli alla sinossi della trasformazione, a ribattezzare lo stesso gruppo con la sigla “CP 01”, laddove CP sta per Contropotere e 01 per sistema binario… E così, come nella seconda parte dello slogan, “contro tutte le forme di potere imposto”, la banda dichiara senza ambiguità il rifiuto totale dei Poteri Dominanti, politici o artistici che siano. Da sempre ci rifiutiamo di scimmiottare per decenni noi stessi sul palco, non vogliamo ripetere all’infinito la filastrocca rassicurante e narcolettica che il pubblico si aspetta, il rifiuto dell’imposizione dei Poteri Dominanti di raccontare la stessa storia alle masse per strategici sonni sereni. I Contropotere sono per riproporre ora e per sempre incubi indomiti e insurrezionali che ustionino indelebilmente le coscienze narcotizzate delle masse.
Lino Monaco mi ha raccontato delle cosiddette “tribes” e dei “travellers” che passavano al Tien’a Ment. Mi dici cos’erano/chi erano esattamente?
A metà degli anni Novanta al Tien’a Ment, un centro occupato a Napoli qualche anno prima dal collettivo Microcellulazione e dai Contropotere, furono accolti gli Spiral Tribe nella loro formazione nativa. All’epoca nessuna realtà italiana antagonista, ad eccezione della Cascina di Milano, voleva rapporti con i “tribaroli”, ritenuti “tekno a bestia”, drogati e qualunquisti. Al Tien’a Ment, invece, gli Spiral fecero una serie di rave-party che cambiarono la storia della musica elettronica in città e con il senno di poi furono indiscussi agenti seminali per tutta l’onda elettronica antagonista che avrebbe invaso l’Italia negli anni successivi. I Contropotere all’epoca già smanettavano con il digitale e nella loro mitica Casa Stella, factory napoletana dove vivevano e si autoproducevano, registrarono una traccia con Simon degli Spirale (oggi Crystall Distorsion) e BK e De Mark dei CP 01. Successivamente in varie occasioni dichiarai pubblicamente, in convegni sulle “controculture”, che gli illegal ravers sono i nuovi “punx”, vestiti di colori e forme diverse ma con la stessa indomita anima libertaria. È grazie alle tribes che “il popolo della notte” scoprì l’esistenza di un altro modo di ascoltare e ballare la musica elettronica al di là della house di merda propinata dalle discoteche dei malavitosi. Questi illegal raves, in spazi temporaneamente occupati, manifestano un’altra pratica di divertirsi, stare assieme, al di là del profitto, dell’imposizione o del mero apparire. È abbracciando in pieno questa nuova onda libertaria che, a metà degli anni Novanta, abbandono la mia città e il mio gruppo per viaggiare a seguito di policrome tribes internazionali con il mio live set di tribalismi industriali per illegal raves in tutta l’Europa, dall’Etna incandescente al glaciale Mare del Nord, per un decennio.
Parlami della collaborazione con Joe Rush e i Mutoid Waste Company.
Tra i Contropotere e i Mutoid Waste Company scoppiò furioso e travolgente un amore a prima vista. Per noi loro erano l’arte “punx” per eccellenza e per loro i Contropotere erano la musica “punx” per eccellenza. Questo amore coronò il suo sogno a metà degli anni Novanta con uno spettacolo assieme, dove i Mutoid agivano con le loro incredibili sculture moventi e i Contropotere con un’articolata colonna sonora ideata per lo spettacolo. Il primo di questi eventi fu al Villaggio Globale di Roma. Penso che per i fortunati presenti, che non erano pochi, sia stato uno degli eventi globali cyberpunx più potenti e seminali mai vissuti in Italia. Dopo qualche anno Joe Rush con alcuni dei Mutoid ed Alli e me dei Contropotere mise su un nuovo gruppo, i Mutek, poche date ma epocali. Oggi Joe resta tra i miei migliori amici e proprio in questi giorni abbiamo ipotizzato l’idea di fare uno spettacolo ispirato a un’antica tragedia greca. La fratellanza acquisita e l’affinità continuano a essere immutate nel tempo, alimentate da un bene e una stima reciproca e intoccabili, perché non sono la forma o lo stile a legarci ma qualcosa che è al di là, qualcosa di profondo e sacro rispecchiato nella vita di ogni giorno e nella passione per l’arte di cui ci nutriamo. È una sorta di religiosa appartenenza a un credo comune e condiviso che va oltre il profitto e contro ogni demagogica strategia di sopraffazione in un indissolubile patto di sangue e di appartenenza. Perché noi siamo la Controcultura.
Da poco avete celebrato i sette anni di attività del centro sociale Tien’a Ment (aprì nell’89 e venne sgomberato nel 1996). Cos’è rimasto di quell’importante esperienza? Cos’è uscito fuori dagli incontri che avete avuto con gli ospiti chiamati per l’occasione?
Tempo fa un giornalista napoletano disse che era doveroso o addirittura indispensabile scrivere la straordinaria storia del Tien’a Ment, patrimonio culturale della città. Questo è un estratto degli incontri: “In quel momento capii che mi era stata data una precisa missione: raccontare alle nuove generazioni ciò che è stato il Tien’a Ment, spiega Adriano Bk Bostik Casale. Ho iniziato così l’immane impresa di scrittura del romanzo sulla storia di quella occupazione. È stato proprio il percorso compiuto per realizzare questo lavoro, in particolare l’azione di “recupero di memoria vissuta”, che mi ha ridato percezione di un particolare senso di APPARTENENZA. È stato inaspettato riscoprirsi parte di una comunità settaria ormai semi-dimenticata cui a tutt’oggi sono profondamente devoto: LA CONTROCULTURA”.
I frutti di questa ricerca personale hanno generato il desiderio di condividere il patrimonio comune ritrovato. Da qui è nata l’idea di organizzare un Festival policromo e multiforme che raccogliesse diverse configurazioni espressive, varie pratiche esistenziali e nuove sperimentazioni estetiche, il tutto unito dal comune rapporto tra “spazio liberato” e “controcultura”.
Le 3Giornate del Tien’a Ment si sono tenute a Napoli il 27, 28 e 29 Maggio 2016, presso la Cittadella Monastica delle Cappuccinelle, antico convento del Settecento del centro storico. Oggi la struttura è occupata dal Collettivo Scacco Matto, col nome di Scugnizzo Liberato. Durante le 3Giornate ci sono stati convegni, concerti, performance, contro-informazione, mercato autogestito, audiovisivi, bio-enogastronomia, tavole rotonde, mostre e un’operosa “kinder area” con percorsi di formazione contro-culturale per i più piccoli. Durante l’evento è stato presentato il mio romanzo “L’Edificio Occupato”, edito da Agente Provocatore Autoproduzioni 100%, opera ispiratrice delle 3Giornate del Tien’a Ment.
Al convegno, tenutosi nel popolare quartiere di Montesanto, sono intervenuti alcuni dei protagonisti della controcultura internazionale: da Joe Rush, fondatore appunto dei Mutoid, a Bifo della storica Radio Alice, da Jim Fleming della autorevole Casa editrice Autonomedia di New York a Sardoman, storico leader dello squatting berlinese, da Marco Philopat, fondatore del Virus, Raffaele Tripodi, autore del libro Tuxedo, a Fly-or, del movimento Anti-gentrification americano. Insieme al racconto delle esperienze personali, il dibattito ha prodotto una panoramica delle attuali visioni del presente e possibili previsioni sul futuro della “controcultura”. Tra queste visioni una ha riscontrato un particolare consenso: la controcultura è religione! Una pratica in cui il culto è manifestazione di atavici elementi laici e libertari e non lo strumento di sottomissione e controllo dei poteri dominanti.
Il palco musicale ha accolto decine di gruppi tra cui gli stessi Contropotere, in una storica reunion a vent’anni dall’ultima apparizione live; poi gli Assalti Frontali, i Randagi, gli Undertakers e tante altre band dei circuiti underground napoletani. L’evento ha costruito contatti e ponti tra le realtà storiche e quelle contemporanee, nel comune desiderio di conoscenza e nella possibilità di tracciare possibili percorsi futuri. Si è parlato inoltre attraverso “situationist roundtable” d’immigrazione, di anti-psichiatria, di TTIP, di “institutionalization and cooptation of counter-cultures”…
Insomma, è stata una festa totale in cui migliaia di persone hanno occupato l’antica Cittadella Ecclesiastica in una religiosa partecipazione, dove per religioso s’intende un rito collettivo di apertura, condivisione e confronto con esperienze diverse.
L3G (le 3Giornate) continuerà il suo percorso come TAZ (Temporary Autonomous Zone), nomade e apolide in una destinazione secretata ai “poteri culturali dominanti” affinché la controcultura possa sopravvivere e manifestarsi nelle sue forme più estreme e irriducibili… e perché la Storia, la nostra Storia, continui!
Parentesi: la voce agli addetti ai lavori Nicola Catalano, Luca Collepiccolo e Gianni Avella.
Effettuiamo un’opportuna deviazione e ci imbattiamo nella testimonianza di alcuni operatori del settore. Il primo è Nicola Catalano, conduttore radiofonico per Radio Rai 3 (per la trasmissione Battiti), storica firma di Blow Up e Rumore, nonché musicista e per diverso tempo collaboratore di un importante negozio di Napoli: Demos, ai tempi sito in via San Sebastiano, in pieno centro storico.
Come e quando inizi ad occuparti di musica? Cosa c’era nella tua città che più ti colpiva a livello musicale?
Nicola Catalano: Ho iniziato da semplice ascoltatore (e ancora mi considero soprattutto un ascoltatore) in tenerissima età, avrò avuto quattro o cinque anni. In casa mia c’erano gli strumenti adatti (radio e giradischi) e queste condizioni hanno sicuramente stimolato e favorito la mia curiosità nei confronti del suono e il desiderio, ancora latente, di occuparmi di musica a livello professionale. Questo desiderio è cresciuto costantemente nel corso degli anni fino a diventare un obiettivo da perseguire e infine perseguito grazie alla perseveranza, alla dedizione e a tanta fortuna. Quando ero adolescente nella mia città (Napoli) non c’era assolutamente niente che mi colpisse a livello musicale, come per tanti miei coetanei i modelli di riferimento erano quelli che arrivavano da fuori, dall’estero (per me soprattutto Inghilterra e Germania, un po’ gli Stati Uniti). Non ho mai amato la musica fatta a Napoli (i vari Pino Daniele…), tranne qualche rara eccezione, tipo il primo Alan Sorrenti. Secondo me davano di Napoli un’immagine stereotipata e oleografica, una variante del classico pizza-spaghetti-mandolino alla quale non volevo omologarmi.
Hai fatto parte dello staff di Demos, se non ricordo male, un importante negozio sito in via San Sebastiano. Sempre se la memoria non mi inganna (da qualche parte dovrei avere ancora dei cataloghi) c’era un magazzino più grande che era situato in un’altra zona della città. Quanto è durata quell’esperienza e quali ricordi ti ha lasciato?
Io ho lavorato con Demos grosso modo dall’inizio degli anni Novanta alla fine di quello stesso decennio. È stata un’esperienza ricca ed importante, anche se poi ho completamente abbandonato il settore dell’importazione e distribuzione discografica. Ho un bellissimo ricordo delle etichette e dei musicisti con le quali ho lavorato e che ho promosso in Italia quando spesso ancora erano sconosciute/i (raster-noton, Tzadik, a-Musik…). Ne ho invece uno pessimo dei titolari della compagnia: la mia esperienza si è conclusa con la classica vertenza di lavoro e mi fermo qui per evitare di cadere nel turpiloquio…
Cosa conosci/apprezzi della musica più sotterranea della Napoli dei giorni nostri? Ricordo che hai anche un passato come musicista negli Z.E.L.L.E. con Maurizio Martusciello (Ossatura, Dogon).
A dire la verità conosco poco e niente, sono ormai quasi vent’anni che vivo e lavoro a Roma e dunque sono abbastanza distante anche geograficamente per avere il polso della situazione. Però non mi pare accada granché, qualche anno fa c’era stata una interessante concentrazione di gruppi raccolti intorno al trio A Spirale e al festival Altera!, ma ho la sensazione che quel circuito sia un po’ imploso. z.e.l.l.e. (tutto minuscolo, in omaggio ai vezzi lowercase/microsound di quegli anni) è un’esperienza conclusa dopo due dischi, rispettivamente per l’americana Line e la nipponica Cubicfabric, ma non escludo che in futuro possa decidere di rimettere mano a materiali di mia composizione, ancora non ho deciso cosa farò da grande…
La seconda voce è quella del romano Luca Collepiccolo. Prima di passare per la pisana Wide Records e di tornare a Roma da Radiation Records e Goodfellas (negozio e distribuzione di dischi), Collepiccolo aveva avuto una breve e prestigiosa esperienza presso la storica Flying Records. Tante le attività che svolge: oltre a scrivere per Blow Up, è stato anche su Rumore e Blast.
A metà circa dei Novanta arrivi a Napoli per lavorare con la Flying Records. Che ruolo avevi in negozio e cosa conservi di quella esperienza?
Luca Collepiccolo: La mia collaborazione con Flying Records si è esaurita in appena dodici mesi. Ho lavorato all’ufficio promozionale dell’etichetta, adiacente all’enorme hangar/magazzino in quel di Agnano, luogo ai più conosciuto per il circuito delle corse dei cavalli. Fui reclutato dall’allora responsabile del reparto vendite Alessandro Massara, che in me aveva visto un elemento tecnicamente valido per integrare con la squadra già pre-esistente. È stato un anno intenso e in assoluto la mia prima esperienza professionale nell’ambito della distribuzione indipendente. Ho viaggiato moltissimo quell’anno, incontrando numerosi musicisti internazionali per appuntamenti di carattere promozionale. La 4AD era al tempo uno dei fiori all’occhiello della distro rock, mi ricordo simpatiche uscite milanesi con Lush e romane con Belly. Tra il ’94 ed il ’95 ci furono grandi exploit di vendita con gli Offspring, che presero addirittura il disco d’oro con “Smash” (cifre d’altri tempi) e le Hole, che avevano raggiunto il loro picco creativo con “Live Through This”.
La Flying aveva un catalogo enorme; mi vengono in mente elenchi fitti di nomi pubblicati sulle pagine di Metal Shock, ad esempio, se la memoria non m’inganna…
Il metal era indubbiamente uno dei punti forti del catalogo, con una label come Music For Nations che era poco meno di una major e sfornava una serie incredibile di titoli. A questo aggiungi ovviamente la Earache, la Century Media e una serie di altri marchi satellite. Periodo poi di grandi contaminazioni tra metal, industrial ed elettronica in genere, oltre a tutti gli spauracchi legati al termine crossover.
Cosa ricordi ancora di particolarmente stimolante, musicalmente parlando, della città?
Flying Records in particolare aveva due anime, una espressamente dance (il marchio UMM era una in-house label) e una propriamente rock. Poi c’era la Crime Squad del compianto Francesco Diana, l’etichetta che tanto per intenderci ha pubblicato l’unico, capitale disco di Sangue Misto. Della house prodotta negli studi adiacenti non ho particolari ricordi, in quanto distante la trattazione dal mio gusto e dalle mie mansioni. Ricordo invece in quello scorcio la collaborazione tra Bisca e 99 Posse che stava prendendo lentamente vita. I musicisti erano spesso nei nostri uffici e si respirava un’aria di genuina creazione. Non vivevo molto la città, nel weekend ero sistematicamente fuori, l’Havana era comunque il club che ho frequentato con più insistenza. Per il resto, ripeto, c’era grande fermento attorno alla scena house: questione risaputa, essendo Napoli uno dei centri nevralgici e più innovativi per l’intera scena tricolore.
Chiudo con Gianni Avella (Awella Mixtape – Radio Shamal), del quale dovreste già apprezzare i podcast, utilissimi nello scorrere tra le memorie musicali più incredibili che il passato, ma non solo, ci ha elargito in campi come psichedelia, blues e jazz.
Raccontami di come e quando decidi di occuparti di musica. Quanto ha contato il contesto cittadino nella tua formazione e quali erano/sono ancora i luoghi dove ascolti/compri musica?
Gianni Avella: Mi formo definitivamente nei Novanta, l’ultimo importante decennio musicale per me. Ai tempi essere ventenne a Napoli era una fortuna. C’erano centri sociali quali Tien’ a Ment o Pegaso, e nel centro storico spadroneggiavano Flying Records e Demos, negozi di dischi e distributori insieme. Tutto quello che volevi, che fosse il gruppo indie del momento o l’industrial più sinistro ed esoterico, potevi averlo, quindi fu facile passare dalla mia prima passione (hardcore di scuola SST e thrash della Bay Area) a nuove derive quali post-rock, jazz, funk e psichedelia da ogni dove. Facile per chi è curioso, affamato e mai sazio, ovviamente.
A fine decennio, quasi per gioco, comincio a scrivere per varie fanzine come Freak Out (legata al Pegaso) e la siciliana Succoacido, entrambe cartacee, per poi passare al web, prima con Sentireascoltare e poi Ondarock. Oggi ho abbandonato la scrittura per la radio, nuova ed eccitante esperienza. Napoli è una città ancora in fermento, anche se personalmente credo manchi un negozio di dischi “vecchio stile”, dove oltre all’acquisto di musica conosci gente e stringi legami. Questo però non è un problema napoletano, ma italiano.
Che tipo di fermento vedi in città in questi ultimi anni? Parlo di etichette ed artisti.
Come ti dicevo, Napoli è una città ancora in fermento, con movimenti, solisti e gruppi che spaziano dal noise all’improvvisazione più iconoclasta. Luoghi come il TPA (terzo piano occupato della Facoltà di Architettura), 76a, Oblomova e Perditempo sono i centri nevralgici di queste realtà, grazie a nomi come Mimmo Napolitano (SEC_), Maurizio Argenziano, Mario Gabola, Aaron Rumore e Francesco Gregoretti.
Nessun clamore o copertine à la Roma Est, sia chiaro…
So che da tempo metti i dischi in alcuni locali. In base a quali criteri scegli i temi e le scalette da far ascoltare?
Come per la scrittura, pure passare musica nei locali nasce per gioco. Sotto questo punto di vista, sono un perfezionista e non amo trovarmi impreparato: passo tutto e di tutto mi porto dietro: cd in primis, vinili pochissime volte.
La selezione varia in base al posto: da Perditempo do sfogo al mio lato più estremo, esagerando pure con i volumi, passando dagli Spacemen 3 a Les Rallizes Dénudés. Quando tocca far ballare invece, giù di afrobeat e post-punk.
L’altro posto in cui passo musica, il Superfly (un nome, un programma) ha un target diverso. Lì il mood è più soul, funk e jazz. É un luogo dove essenzialmente si viene a bere del buon vino e scambiare chiacchiere in serenità.
Comunque, non sono un dj né un virtuoso del giradischi. Come ho detto, “seleziono”.
Come anticipo in una domanda, questo racconto/percorso volutamente “infedele” ed a più voci nasce anche perché sentivo l’urgenza di menzionare un musicista speciale per la città: Luciano Cilio, un vero e proprio outsider. Non potevo che interpellare Girolamo De Simone, musicista, saggista e studioso di lungo corso (tra le altre cose scrive anche per Alias, inserto settimanale de Il Manifesto ed è autore di un libro appena uscito: “Musica Sottile”, Guida Editori) che ha sempre avuto a cuore la figura di Cilio.
Nelle note introduttive del tuo scritto incluso nella ristampa di Dialoghi Del Presente di Luciano Cilio (Die Schachtel) scrivi: “La morte è l’emigrazione più radicale. Molti musicisti napoletani lasciarono la loro città o si rifugiarono, loro malgrado, in una sorta di semiclandestinità operativa. Una Napoli sotterranea ci fu davvero, una città d’artisti importanti anche se ignoti, o noti ovunque tranne che intra moenia. Concerti per pochi intimi, idee meravigliose naufragate per l’indifferenza ma soprattutto per la tendenziosità e la presunzione di chi avrebbe dovuto informare e, in tal modo, formare tutta la collettività”. Mi viene spontaneo chiederti a quali artisti ti riferisci e se secondo te Napoli è ancora così o col tempo le cose sono cambiate…
Girolamo De Simone: Col tempo le cose sono cambiate, in peggio. Dopo una deleteria legge regionale, che ha fatto pendant a politiche nazionali scellerate, il piccolo associazionismo è stato disincentivato, e persino spazi residuali di azione per voci non allineate, ovverosia originali, sono di fatto scomparsi, a meno di non rifugiarsi nella pura gratuità dell’offerta. Una soluzione offensiva e non praticabile, dacché la gratuità potrebbe sussistere solo se il pubblico continuasse a fare la sua parte. In nessun Paese del mondo la ricerca musicale o artistica riesce a sostenersi da sola. Il mercato va ascoltato, e dalle preferenze da “scaffale” o da ipermercato della cultura c’è anche da imparare, ma senza spegnere le voci controcorrente o anti-accademiche. Vale la pena sottolineare che le esperienze di centri “occupati” hanno spesso solo sostituito la struttura accademica con stratificazioni associative selettive, ciascuna con “capetti” che decidono cosa entra e cosa resta fuori…
Per quanto riguarda i nomi, non mi sarebbe difficile fornirteli, ma mi parrebbe di “tradire” i percorsi individuali, che poi sono stati comunque dignitosi, benché di una marginalità talvolta residuale, talaltra propulsiva ed efficace alla maniera di Foucault (solchi – resistenze) o Deleuze (fili d’erba di un Giardino ipotetico, che ciascuno di noi si è costruito, e che lancia nell’etere, senza poi sapere quali esiti comunitari si raccolgano). Entrambe le soluzioni non impediscono le appropriazioni dei grossi meccanismi di produzione, che “rubano” o fanno proprie le intuizioni più originali, “spoliandole” della loro originale carica eversiva e riuscendo a portarle al grande pubblico, magari sotto forma di spot pubblicitario o come sigla di una striscia informativa. Il che non significa che io difenda il “possesso” sulle buone idee (avendo inventato le cosiddette “estetiche del plagio”, oggetto anche di un lontano e pioneristico TG2 Dossier), ma solo che apprezzerei la citazione di chi ha davvero ideato certe formule nuove, cosa prevista ad esempio nella licenza Creative Commons per i diritti d’autore…
Tornando tuttavia ai nomi, anni fa ho pubblicato per la Esi un numero monografico di Konsequenz dal titolo “L’altra avanguardia, piccola storia della musica contemporanea a Napoli”, che si può leggere qui e che contiene molti nomi e circostanze a partire proprio dalla vicenda dolorosa di Luciano Cilio. Un altro librino è poi reperibile in rete, sulla vicenda e sugli esiti della sua storia: si intitola “Luciano Cilio mi disse”, ed è auto-stampato su uno dei siti di servizio appositi (Editoriale l’Espresso).
Oltre, appunto, alla costante operazione di conoscenza ai più dell’opera di Luciano Cilio, sei certamente uno dei testimoni e protagonisti delle realtà musicali partenopee meno allineate, in particolare facendo riferimento, se non erro, ad ambiti legati all’avanguardia. Vale comunque la pena “sbattersi” in qualche modo per portare avanti discorsi musicali di un certo tipo in una città affascinante e paradossale come Napoli?
Purtroppo continuo a “sbattermi”, come giustamente dici tu… appena pochi mesi fa ho ideato una collana discografica per la piccola etichetta/progetto Konsequenz, e ho affiancato accanto ai nomi storici ma extramoenia più noti delle avanguardie (ma sempre con rarità), quelli di compositori viventi e operanti in città, senza vincoli anagrafici ma solo, appunto, di effettiva presenza per le strade e negli spazi vivi. Inutile che io sottolinei che “non” considero spazi vivi quelli istituzionali come il teatro San Carlo, che apre le porte solo quando vuole, e solo per far finta di aprirle. Si possono facilmente reperire le nostre piccole produzioni (non-profit) qui. Nei prossimi mesi ci saranno altre uscite, e forse la ripresa del progetto cartaceo della storica rivista “Konsequenz”. In un librino intitolato “Musica sottile” (Guida editori), ho poi cercato di fare il punto sulla situazione e ho inserito nei “desiderata” conclusivi (ampliabili a qualsiasi città, non solo a Napoli): “Basterebbe destinare infima parte delle risorse non a progetti eclatanti (basta progetti, basta grandi eventi, megalomania inconcludente, compilatoria, modulistica!) ma a… persone: cinque giovani all’anno, ognuno che porti avanti il suo agire, la sua idea, per almeno tre anni. Assegnare borse di studio e finanziare gli esiti del lavoro. Dopo pochi anni saremmo meta di turismo autentico, non solo oleografico. Questi fermenti arricchirebbero la vita culturale-artistica delle città: città di atelier, di transiti sonori, non più solo “porose” ma “generative”, a flusso diretto. Città Fluxus.”.
Concludo il libro con una frase che è già stata individuata come polemica da alcuni recensori: “Chi opera da venti, trent’anni sul territorio possiede un archivio di “fatti” culturali e artistici che lo hanno agito/agitato formando la comunità. Queste singolarità selvagge, associazioni, persone, non devono più “scrivere progetti”: gli si dovrebbe finalmente dar credito senza caricarli di ulteriori incombenze. Come si può chiedere “il progetto” a chi lo sta già attuando da decenni?”
Che tipo di fermenti culturali/musicali (se ce ne sono…) vedi dal tuo osservatorio?
Ho la sensazione che cresca la musica fatta dai giovani, a partire da sedi scolastiche come i Licei musicali. A Napoli centro sono operativi il Palizzi e, da molti anni, il Margherita di Savoia: lì c’è il nostro futuro musicale, giovani di grande valore che avrebbero diritto a fornire il loro contributo qualitativo alla crescita della città, e non solo l’aspettativa di emigrare per poter lavorare e produrre… Sono invece assai scettico su altre iniziative da cassetta, come Piano City (che riguarda ancora una volta tutte le città, non solo Napoli) e in generale tutte le iniziative che appaiono come offerte culturali senza però offrire un contributo di reale crescita e sussistenza agli artisti e ai musicisti, siano essi “residenti” o d’importazione…
Ammetto che sapevo poco o nulla di Agostino Di Scipio. La “soffiata” è arrivata da uno dei miei interlocutori, che me lo ha presentato come una sorta di maestro per alcuni musicisti della città. Non è un caso che Di Scipio, oltre alle innumerevoli attività di “ricerca”, abbia collaborato con una delle figure cardine e più sfuggenti dell’impro-noise napoletano: Mario Gabola degli Aspec(t) e A Spirale.
Qui su The New Noise non abbiamo ancora avuto modo di occuparci di lei. Ci vuole presentare brevemente il suo percorso artistico?
Agostino Di Scipio: Mi sono avvicinato alla musica da ragazzo, verso la fine degli anni Settanta, strimpellando qualche strumento che avevamo in casa, ma anche facendo liberi montaggi sonori con banali registratori a cassetta casalinghi. Infine suonando la chitarra elettrica, per lo più con tecniche poco ortodosse e con esiti spesso troppo inconsueti (a metà tra Robert Fripp e Arto Lindsay, tra Adrian Belew e Derek Bailey). A metà degli anni Ottanta ho lasciato Napoli e ho studiato Composizione e Musica Elettronica in Conservatorio a L’Aquila (in particolare con Michelangelo Lupone, pioniere dei sistemi di calcolo per l’audio in tempo reale) ed ho approfondito certi aspetti dell’informatica musicale all’Università di Padova. Da allora, anche attraverso l’approfondimento critico di autori “storici” a me cari (in primis Iannis Xenakis, ma anche Franco Evangelisti, Alvin Lucier e certe cose di John Cage), mi sono sempre più concentrato sulla ricerca di forme originali di sintesi del suono e su esperienze di composizione con tecniche inusitate di esecuzione acustica (voglio dire con strumenti musicali meno convenzionali, spesso reinventati) e di interazione uomo/macchina. Presto ho iniziato anche a realizzare installazioni sonore, accanto a situazioni musicali più vicine alle forme rituali del concerto.
Per farla breve, tutto ciò è poi confluito prima in una concezione granulare, pulviscolare del suono, in un interesse particolare per turbolenze acustiche. Ed infine nel progetto “Ecosistemico Udibile” (2002-2005). Cioè una serie di lavori, portata a termine durante un periodo in cui ho vissuto a Berlino, in cui metto in azione infrastrutture ibride – analogiche e digitali – dove l’evoluzione dinamica del suono procede in rapporto dialettico e dialogico – di dipendenza/indipendenza, di autonomia/eteronomia – rispetto al “qui ed ora” dell’evento sonoro, e cioè anche rispetto allo spazio materiale e socialmente condiviso in cui avviene la performance. Dunque sono lavori basati essenzialmente sul rumore di fondo dell’ambiente, operanti mediante reti di feedback e di trasformazioni granulari e non-lineari: dopo aver ascoltato l’ambiente – quello sfondo sonoro che è sempre nelle nostre orecchie ma cui non prestiamo mai attenzione – questi lavori provano a farne qualcosa, a stabilire con esso una relazione costruttiva, produttiva, in un processo fragile e rischioso tra suono e silenzio sempre soggetto alle contingenze, sempre sul punto di non riuscire, sull’orlo del fallimento… Dopo Ecosistemico Udibile praticamente non ho più fatto produzioni di studio, per dedicarmi piuttosto ad un lavoro sulle condizioni di performance in tempo reale in spazio reale. Questo paradigma eco-sistemico, che ha precedenti in certe forme di sperimentazione non necessariamente recenti, ha finito col sollevare grande interesse, ed è stato ripreso e personalizzato da colleghi e amici in tutto il mondo. Esso sta alla base anche di progetti successivi, dove porto l’attenzione ora soprattutto sull’acustica di alcuni strumenti musicali (il ciclo “Modi Di Interferenza”, 2006-2011, oppure i “2 Pezzi Di Ascolto E Sorveglianza”, 2010) ora soprattutto sull’acustica degli ambienti (il ciclo di installazioni “Untitled”, 2005-2016).
Lei opera in particolare come compositore nel campo dell’elettroacustica (è anche docente). Da dove nasce questo interesse e quanto ha contato la sua città di origine, Napoli, nel suo discorso teorico-musicale?
Una premessa: non credo che classificazioni di genere come “elettroacustica”, per il modo in cui vengono spesso adoperate, possano davvero essere assegnate al lavoro che porto avanti. Fondamentalmente sono un compositore, cioè uno che crea relazioni tra processi di emissione del suono, indipendentemente dal medium in cui ciò può accadere. Alcuni mi conoscono più come artista sonoro. Altri come studioso e teorico. Forse è grazie a queste diverse prospettive che ho conseguito una sostanziale autonomia produttiva e indipendenza intellettuale, pur ovviamente sempre relativa e variabile. Nel mio lavoro sono importanti sia l’elaborazione numerica dei segnali, sia l’acustica ambientale, sia la tecnologia dei processi di trasduzione (non solo elettroacustici), sia ambiti di pensiero apparentemente lontani: la (bio)cibernetica, la filosofia della scienza, la teoria critica della tecnologia, spunti di epistemologia costruttivistica, la storia delle tecnologie e dei media… Senza dire ovviamente della storia della musica, dell’eco-musicologia, dell’attuale proliferazione (non in Italia) dei “sound studies”… Parlerei di “elettroacustica” principalmente nel senso in cui, riprendendo una certa linea che forse comincia con David Tudor nei primi anni Settanta, per me comporre significa elaborare le condizioni di generazione e di trasmissione del suono. Più precisamente: costruire sistemi, reti di relazioni e interazioni mediate solo nel e dal suono. Tra i sistemi possibili, alcuni sono appunto “catene elettroacustiche” (sistemi di accoppiamenti tra trasduttori, amplificatori…), altri sono interamente digitali, altri sono ibridi. Altri ancora sono puramente meccanici (lo scorso anno, in un concerto dedicatomi dallo IEM di Graz, è stato eseguito il mio secondo quartetto d’archi, interamente acustico, senza elettronica, ma non per questo separato dal resto del mio lavoro). In tutti questi casi – e anche nel caso dell’elettroacustica – per me si tratta soprattutto di passare da una logica strettamente funzionale e riduzionistica delle tecnologie come “mezzi di riproduzione” a una logica creativa, cioè critica, conoscitiva e relazionale, cioè ad una logica delle tecnologie come “mezzi di produzione”… Insomma, si tratta non tanto di “usare” dispositivi elettroacustici, subendone passivamente le limitazioni e seguendo le possibilità pre-inscritte nel loro codice, ma di inventarli ex-novo o almeno di riconfigurarli, di farne degli ibridi uomo/macchina/ambiente e di esplorare il potenziale sonoro ed espressivo delle loro codeterminazioni.
Ora, tu mi chiedi se rispetto a tutto ciò sia stato importante l’essere nato a Napoli, dove poi sono tornato a operare anche molto dopo che la mia personale geografia biografica era ormai cambiata. Non saprei. Qualche volta mi sembra che una certa concezione del suono – come “polvere sonora”, come “turbolenza”, ma anche come “evento di relazione” – mi viene dal paesaggio urbano di questi luoghi, dalle mura secolari di una città che, da molto tempo ormai, muore lentamente, ma anche molto vivacemente, in maniera vitale (forse Napoli riproduce la complessità del biologico, dove vivere significa reagire alla morte permanentemente, e morire non è che una condizione eccessiva del vivente). Altre volte penso che sia stato importante un evento particolare: il rombo, la turbolenza che scosse la terra sotto i nostri piedi un giorno del 1980 (il terremoto con epicentro in Irpinia). Voglio anche dire che, in generale, non mi piace “estetizzare” o “poetizzare” l’esperienza biografica (spetta ad altri, ammesso che qualcuno ne possa avere interesse). Però non dimentico che il Vesuvio è silente ma attivo. E che questa “nuova città” nasceva come riparo di greci in fuga, di migranti che avevano perduto (o volevano perdere) diritto di cittadinanza in patria.
Da tempo opera anche all’estero, se non vado errato. Che tipo di feedback ha ottenuto da quelle esperienze?
Beh, a dire il vero, anche se la mia base operativa è a L’Aquila, il mio lavoro da tempo si svolge non “spesso” ma direi “prevalentemente” all’estero. In Europa ho trovato molti interlocutori partecipi, come testimonia il numero speciale di Contemporary Music Review dedicato al mio lavoro un paio di anni fa. Ahinoi, l’Italia è (culturalmente) piccola, spesso provinciale, anche in contesti come quelli della sperimentazione musicale e dell’arte (sonora e non…). Il ciclo “Ecosistemico Udibile” è stato completato grazie agli amici del DAAD di Berlino (“Studio Sul Rumore Di Fondo”, 2004, e “Studio Sul Rumore Di Fondo, Nel Tratto Vocale”, 2005). Il primo brano del ciclo Modi Di Interferenza (un sistema autonomo di feedback con tromba ed elettronica dal vivo) è nato su commissione dello ZKM di Karlsruhe. L’ultimo di quella stessa serie è un’istallazione interamente analogica (realizzata smontando amplificatori da chitarra elettrica e rimontandoli in rete tra loro) nata per una mostra personale svoltasi nel 2011 a Berlino, alla galleria di Mario Mazzoli (altro “cervello in fuga”). Le istallazioni “Untitled” sono tutte nate da inviti e commissioni arrivate dall’estero, l’ultima delle quali (“Untitled 2016”, costruzione sonora eco-sistemica) è stata presentata ad Aarhus in Danimarca, qualche settimana fa, per lo SPOR Festival. L’unità di ricerca di cui faccio parte, che si occupa di “musica ed ecologie del suono”, fa capo all’Università di Parigi VIII. Insomma, non è un caso che nel libro/cd uscito qualche tempo fa, “Polveri Sonore. Una Prospettiva Ecosistemica Della Composizione” (La Camera Verde, Roma, 2014), tutti i testi siano di critici e musicologi che si sono interessati al mio lavoro “da lontano” (Regno Unito, Francia, Germania), a eccezione dell’intervista iniziale raccolta da Laura Zattra e da una breve nota di chiusura di Daniela Tortora.
Detto questo, devo anche dire che la qualità e l’intelligenza di musicisti e collaboratori italiani è spesso superiore. Inoltre, in Italia porto avanti soprattutto progetti in collaborazione, come nel caso di MACHINE MILIEU, progetto attualmente in corso insieme a Dario Sanfilippo (che però vive a Edimburgo…), basato sull’idea di far interagire due o più sistemi ibridi autonomi mediante il suono d’ambiente (pubblicheremo – spero presto – del materiale estremamente interessante). Oppure penso alla collaborazione, nata a Napoli, in duo col pianista Ciro Longobardi, anche se le reazioni migliori in fin dei conti le abbiamo avute all’estero – a parte la partecipazione alla Biennale Musica a Venezia 2012, dove abbiamo presentato una nostra versione di Electronic Music for Piano, di John Cage (poi pubblicata da Stradivarius).
Come nasce e si sviluppa la collaborazione con Mario Gabola degli Aspec(t)? Ricordo un disco a nome UpSet uscito per la Viande nel 2010. Conta di intraprenderne altre con artisti dell’area partenopea o pensa di proseguire per altre strade?
UpSet è un duo di improvvisazione radicale (o di “composizione istantanea”…), nell’ambito del quale sia io sia Mario utilizziamo principalmente e tematicamente circuiti di generazione del suono auto-costruiti riciclando amplificatori e altri dispositivi (Mario utilizza anche – e da par suo, cioè in modo magnificamente abusivo – il sax tenore). Il progetto è nato attraverso varie circostanze, ma in fondo soprattutto per un comune interesse verso pratiche di autonomia di produzione. Dopo il cd che hai ricordato abbiamo realizzato del nuovo materiale, secondo me molto più interessante e maturo, che però è rimasto (ancora) inedito perché, come spesso ho visto nel mio percorso personale, i responsabili delle label cui lo abbiamo fatto ascoltare non sanno come collocarlo, come etichettarlo – cioè, in fondo, come venderlo… Ciò non fa che confermare il fatto che se persegui con libertà ciò che senti necessario, e rendi davvero udibile la sensibilità, l’indipendenza di pensiero e di prassi, finisci per posizionarti in punti interstiziali inaccettabili per le logiche di circolazione prevalenti (in fondo dominanti anche in contesti musicali sedicenti “sperimentali”), finendo per risultare estraneo a tutte le “chiese” e alle loro condotte “identitarie”…
Detto questo, è anche vero che ho dovuto ancora una volta lasciare Napoli per motivi personali, per cui il progetto con Mario – che per sua natura richiedeva un’assidua condivisione – è rimasto in sospeso. Certo, spero di riprenderlo. Come spero di poter proseguire altre collaborazioni: nonostante le difficoltà – anzi, in parte anche proprio per via delle difficoltà – Napoli è un terreno molto fertile, denso di forze espressive e di istanze di ricerca diverse. Lo testimoniano le attività dei membri di Aspec(t), ma anche, in un ambito diverso, le iniziative dei musicisti di Dissonanzen. Non dimentico che, con alcuni miei ex-studenti (Ivano Morrone in primis, ma anche Andrea Arcella, Massimo Scamarcio e altri), per qualche anno abbiamo portato avanti la pubblicazione della rassegna di studi Le Arti Del Suono, esperienza a sua modo unica di riflessione sulle varie forme di sound art. Peraltro con alcuni di essi abbiamo anche realizzato un cd, intitolato SPAM – Sculture Sonore E Altri Dispositivi (Die Schachtel) dove spiccano un raro lavoro di John Cage e una serie di tracce originali che spaziano dal field-recording ad un’elettronica molto noise (sigle che in realtà dicono poco). Negli ultimi anni, insieme ad altri musicisti, tra cui Christian Sommaiuolo e Dario Casillo (che animano il progetto NapoliSoundScape), abbiamo presentato a Napoli per la prima volta l’opera di pionieri come Alvin Lucier o come Mario Bertoncini (sodale di Evangelisti nello storico Gruppo Di Improvvisazione Nuova Consonanza), accanto a voci più giovani, emblematiche della pluralità della situazione contemporanea. Non dimentico i vari labs realizzati in città (grazie in particolare a Luigi Maria Sicca e altri operatori culturali). E poi ancora il percorso di “Arte Sonora Cinetica” iniziato da Roberto Pugliese con ottimi risultati (in Italia e all’estero), o il lavoro più isolato e rarefatto, “povero” ma molto interessante, di Massimo Scamarcio, reduce dalla realizzazione di Terra Fertile, una gran bella installazione realizzata in Svizzera (forse il titolo non è senza allusioni alla terra di origine…).
La questione insomma non è se io personalmente metta in conto di tornare a lavorare su Napoli per ritrovare sinergie sospese e trovarne di nuove: no, la questione è se qualcuno, da Napoli, conta di incrociare altrove quelle sinergie dentro le quali portare l’humus problematico e il caos fertile che si respira e si ascolta in questa città così vitalmente morente. Pur essendoci nato, io a Napoli in fondo resto un estraneo, mentre lontano da essa mi scopro davvero appartenente a questa città, alla sua condizione di vitalità sempre moritura – o di morte sempre nascitura.
A questo punto viene naturale chiedersi cosa bolle in pentola negli ultimi anni. Ho chiesto ad Aaron Rumore (Körper Leib) di raccontarmi la sua versione dei fatti.
Dimmi come nasce la Körper Leib e che tipo di riscontri sta avendo l’etichetta…
Aaron Rumore: L’etichetta nasce tra Ottobre e Novembre 2014. Inizialmente eravamo in due, ma già dalla terza uscita gestisco tutto da solo. Riscontri a mio avviso positivi, ma ci sarebbe da definire cosa si intende per riscontri. Stampare un disco a uno dei miei gruppi preferiti o girare con persone che condividono un percorso affine, non importa quanto antecedente al mio – è uno spoiler, parlo dei Fly Ashtray – è già più che gratificante. Per quanto concerne i riscontri “critici” o economici non ho nulla di cui lamentarmi, se non altro perché K/L ha un’impostazione stabile che dipende solo lateralmente da questi.
Come mai la scelta singolare, per certi versi anche piuttosto anacronistica, del formato cassetta?
Dipende appunto dall’impostazione di cui sopra. Posso permettermi delle tirature flessibili e seguire tutto il processo, avere le mani su tutto, dal dubbing alla distribuzione e tutto ciò che ci passa in mezzo. Il limite di 100 copie imposto per ogni nastro è la mia garanzia di autonomia.
Sei tra quelli più giovani che ho intervistato per questo articolo. Cosa sai del passato più “alternativo” napoletano e cose c’è di valido in città, oggi? Alludo a realtà culturali e band che hanno particolare valore secondo te…
Quello che è il “passato”, nell’ambito che mi interessa e percorro (che è poi lo stesso al quale afferiscono diverse persone presenti in questo articolo), non mi sembra sia effettivamente passato. Diversi poli vitali della città continuano ad essere gli stessi, comuni, da un pugno d’anni. Ed è di quest’attualità che parlerei: c’è un bel fermento a Napoli, dovuto a un non scontato ricambio generazionale e da alcune ibridazioni tra ambienti tutto sommato affini, ma non sempre omogenei e in dialogo. Negli ultimi due anni, ad esempio, si è dipanato un vero e proprio albero genealogico di gruppi confluenti l’uno nell’altro: Genital Warts, Radford Electronics, Sick Sciences e Tricatiempo, ad esempio, sono formazioni che ruotano intorno agli stessi quattro membri, con materiali mutuati da esperienze piuttosto diverse. Più in generale, se dovessi attenermi ad un semplice consiglio: tutto quello che ruota intorno ai Matar Dolores (dunque le etichette Joy De Vivre e Archivio Diafonico), tutta la famiglia Grizzly/Oddly/Strongly Imploded, che non scopro certo io su queste pagine, il lavoro di SEC_ e la sua Toxo Records e ovviamente Mario Gabola/Viande. Mi piace pensare che tutte queste persone siano anche degli spazi: Terzo Piano Occupato, 76A, Perditempo, Oblomova. Questa è una visione parziale, chiaramente, perché ho voluto toccare solo ambiti strettamente legati alle mie pratiche. Ad esempio, però, con l’apertura di Atri 6 anche il garage/punk ha ritrovato una casa importante, e andrebbe quantomeno nominato il grosso lavoro di Mario Orsini (La Via Degli Astronauti/Controcanti), con una forte componente territoriale ed un pubblico giovane, assiduo e vivacissimo, in un ambito talvolta stagnante come quello del punk “pulito” (emocore, screamo, post-hardcore…).
Tocca a Francesco Gregoretti, che conoscete già se avete letto i nostri articoli su Grizzly Imploded (coi soci Sergio Albano e Maurizio Argenziano) e Architeuthis Rex. Il batterista è uno che non sta mai con le mani in mano, e continua ormai da tempo a portare avanti progetti sempre diversi e a darsi da fare per far suonare tutta una serie di curiose figure degli ambiti free & noise.
Francesco, perché scegli di misurarti con la batteria? Ci sono dei modelli di batteristi, anche legati alla tua città magari, ai quali ti sei ispirato?
Francesco Gregoretti: La scelta dello strumento non è stata poi così ponderata da parte mia. So solo che ad un certo punto è scoccato in me il desiderio irrefrenabile di voler fare musica. Ne ero appassionatissimo. Immaginavo di realizzare le mie velleità musicali esprimendo anche il mio sentire e così come un’anima in pena mi sono riversato sul suonare il primo strumento che mi è venuto in mente: la batteria. No, non ci sono modelli di batteristi ai quali mi sono ispirato.
Da quali esigenze artistiche nascono esperienze molto diverse tra loro come One Starving Day e Many Others con Olivier Di Placido? Il discorso cambia coi Grizzly Imploded e ancora di più con gli Architeuthis Rex, ma questa è un’altra storia…
One Starving Day non è un gruppo che ho fondato io, ma in cui sono stato coinvolto poco dopo la sua fondazione e di cui ho interiorizzato l’essenza ben presto. Per me era importante che condividessimo una certa attitudine espressiva e creativa, nonché alcune modalità di intendere la musica stessa, di presentarsi all’esterno e di essere percepiti dall’esterno. L’interesse era anche di preservare la musica e quindi il messaggio che veicolava da aspetti “accessori” ai quali non eravamo e non sono interessato tutt’oggi. Esperienza che è quindi espressione del comune sentire su alcuni aspetti musicali come del vissuto, di cui condividevamo a sua volta alcuni aspetti. Per i progetti di improvvisazione (con Olivier, i vari Imploded e Cyanobacteria per esempio) l’esigenza, per così dire, era quella di realizzare una musica che si sviluppasse spontaneamente, mantenendo centrale la comune condivisione dell’attitudine e del modo in cui interpretarsi relazionandosi anche agli altri. Fare una musica che si sviluppasse in maniera naturale nel momento stesso in cui veniva suonata, in completa libertà da tutte le persone coinvolte, seguendo una propria narrazione. Seguendo la propria libertà e nello stesso tempo avendo la capacità di assecondare la libertà altrui e di seguire le narrazioni altrui, co-costruendo una narrazione unica. In piena connessione con il tempo contingente e lo spazio circostante ed eventualmente il pubblico. Nello specifico Many Others è nato da un’intuizione di Mario (Gabola) che ci organizzò alcuni concerti a Napoli e nei dintorni di Napoli, dai quali poi è scaturito un legame umano oltre che musicale che ha portato ad una reale collaborazione musicale. In definitiva, One Starving Day e Architeuthis Rex non sono così distanti, direi che sono diversamente catartici, mentre Many Others e Grizzly Imploded sono spontanei ma comunque “introspettivi” e tesi, con Many Others che tende ad essere esplosivo.
Cosa apprezzi in particolare del passato musicale napoletano più “alternativo” e di quello più recente?
In generale del passato alternativo napoletano ho sempre apprezzato l’eterogeneità. Per quanto fosse una città periferica per le culture alternative a cui ero più vicino, ci sono stati molti gruppi con una loro peculiare identità: Contropotere, Argine, Silken Barb per citarne solo alcuni. Pluralità di proposte e di realtà sommerse che si è consolidata nel tempo, forse anche ingigantita? Napoli musicale alternativa è stata ed è tutt’ora più grande di quello che potevo/posso immaginare.
In chiusura non potevano mancare le parole di SEC_, ovvero Mimmo Napolitano, anch’egli indefesso “agitatore culturale” con la sua etichetta e le tante collaborazioni che gli girano attorno. Ricordo che è stato l’autore di un articolo che ha ispirato quello che state leggendo, si intitolava “Luoghi Del Fare / Luoghi Del Potere #1: Napoli”, uscito su Solar Ipse #4 nella primavera del 2011.
La Toxo Records è anche la “casa” degli Aspec(t), tuo progetto con Mario Gabola (ci avete prestato un brano per la nostra ultima compilation…) e di altre realtà piuttosto sotterranee come Weltraum e Matar Dolores. Vi muovete insomma in ambiti parecchio ostici e poco facili da etichettare. Cosa vi spinge a misurarvi con questo tipo di musiche?
SEC_: Più che un’etichetta (il catalogo conta solo sette titoli) Toxo Records è il nome per individuare un insieme di connessioni, di pratiche, di realtà che si incrociano nella città di Napoli e che mi riguardano sia da un punto di vista musicale, sia politico/organizzativo, in definitiva umano. Il “tipo di musiche” che cerco di far passare attraverso Toxo è sicuramente caratterizzato da una ricerca “radicale” sul suono e sui dispositivi sonori, ma non è separabile da tutta una serie di altri fattori, che hanno a che fare ad esempio con le modalità di questo fare musica, e che sono affrontati anch’essi in maniera radicale. Penso ad esempio al diy come teoria e pratica per rapportarsi ai mezzi tecnici e fare le cose in maniera indipendente, penso agli spazi autogestiti, alle situazioni di condivisione dei mezzi di produzione e delle conoscenze, ai laboratori indipendenti. Napoli è sempre più animata da questo tipo di pratiche e idee, grazie al lavoro instancabile di persone come Mario degli Aspec(t) o Francesco e Giuseppe dei Matar Dolores, o ancora Andrea aka 70fps, Francesco Gregoretti, Olivier Di Placido, Ron Grieco, Guido “Eks” Marziale, Aaron Rumore, Stefano Costanzo e tanti altri. E tutto questo si inscrive in un contesto cittadino pieno di storie, luoghi vissuti, suoni, oscure fascinazioni, contraddizioni, con i quali ci confrontiamo tutti i giorni e attraverso/contro i quali portiamo avanti i nostri discorsi. Ecco, la musica di Toxo Records è il risultato, sempre in divenire, di questo incontro/scontro.
SEC_ è la tua incarnazione più personale. È uscito da poco un nuovo disco, vero?
“Mefite” è il mio nuovo disco, una specie di radiodramma ispirato, da un lato da questo luogo magico e tetro che è la Mefite di Rocca San Felice, in Irpinia, da millenni luogo di culti pagani a causa delle pericolose esalazioni sulfuree che rendono l’area una specie di deserto nel bel mezzo del verde; dall’altro dal film del compianto regista svizzero Peter Liechti “The Sound Of Insects”, che racconta la drammatica storia di una persona che decide di suicidarsi digiunando, e che tiene un inquietante diario in cui racconta giorno per giorno le sue sensazioni fisiche, le sue paure, le sue allucinazioni. Il tema di fondo direi che è un “classico letterario”, ovverosia il passaggio tra la vita e la morte, che ho cercato di far emergere non solo attraverso il testo narrato (la voce è della performer M. DellaMorte), ma anche musicalmente tramite la miscela di materiali sonori talvolta “narrativi”, talvolta astratti, in un gioco di riconoscibilità e straniamento; un procedimento tipico della musique concrète francese, alla quale senza dubbio mi ispiro, ma riletto in una chiave più potente, scura… noise!
Come vedi il passato musicale della città? Soprattutto da quali basi credi possa essere nata tutta una serie di piccole ed agguerrite situazioni “rumorose” come quelle in cui sei coinvolto?
La musica che si fa oggi a Napoli ha probabilmente più legami con il tessuto sociale della città, i suoi luoghi, le dinamiche di vita, che con il suo passato musicale. Non mi pare ci sia a Napoli una tradizione di musica sperimentale, nel senso in cui può esserci stata a Roma o Milano, per non parlare di Francia, Svizzera… Da questo punto di vista il lavoro di organizzazione di concerti che ci impegna ormai da anni (penso alla rassegna Altera!, che si è poi evoluta in una programmazione permanente, o al festival Flussi di Avellino) è stato fondamentale perché ha permesso a tutti di venire a contatto con musicisti di altre parti del mondo, in cui altri discorsi ed esperienze non solo musicali erano già avviati e che non sarebbe stato altrimenti possibile, per molti, toccare con mano. Tuttavia una certa storia musicale cittadina, dal jazz degli anni Settanta all’industrial degli anni Ottanta, a tutto il nutrito movimento punk-hardcore di anni più recenti, è stata di certo influente e ha contribuito a creare una sensibilità molto tagliente, eclettica, variegata, che secondo me caratterizza in senso positivo una certa cifra stilistica degli sperimentatori napoletani radicali di oggi. Anche perché quelle realtà hanno espresso un discorso antagonistico che le lega idealmente alle esperienze contemporanee, non tanto da un punto di vista di ricerca sonora, quanto da un punto di vista di attitudine, di legame con la realtà, che secondo me è la cosa più importante. In fondo la musica è relazione (con le persone, con gli strumenti, con le idee, con i suoni noti e ignoti), e lo è nel senso più profondo: specialmente quando si pone in un’ottica di rottura, lo fa per rompere delle relazioni malate, assoggettate alle logiche produttive, e ricrearne di nuove, gioiose e libere, piene di desideri.