Alle condizioni dei Menace Ruine
I due Menace Ruine (Geneviève Beaulieu e S. de la Moth, Montreal, Quebec) cominciano nel 2006, il loro primo full length è del 2008 e si intitola Cult Of Ruins. Esce per Alien8, una delle migliori al tempo, poi fermatasi a inizio anni Dieci. Subito dopo esce The Die Is Cast: se il predecessore è una vomitata noise black metal tipo quelle dei Wold, The Die Is Cast prende il sound primordiale del black e lo reinventa come magma drone su cui canta ieratica Geneviève. Come si vede nell’intervista che segue, realizzata perché all’Amplifest ci sarà uno dei rarissimi concerti dei Menace Ruine, da un lato è facile richiamare Nico quando si parla dell’approccio di Geneviève, mentre per la parte musicale bisogna forse tornare indietro a quel periodo in cui il drone metal era una specie di trend e vari progetti (di nuovo i Wold, ma non solo, c’erano i KTL e altri mille nomi più piccoli) puntavano sullo sfruttare le potenzialità ambient e noise del black, che sin dagli anni Novanta sono palesi (Burzum su tutti), piuttosto che sullo scrivere canzoni. Non è insomma un caso che poi nel 2011 Union Of Irreconcilables esca per Aurora Borealis, altra etichetta che si muove nelle zone di confine tra generi estremi, e che Alight In Ashes e Venus Armata finiscano su Profound Lore, che è chiaramente metal ma non si può dire che non prenda dei rischi o sia passatista. Il sound dei Menace Ruine, in ogni caso, dopo The Die Is Cast rimane stabile, ma non per questo annoia, anche perché i due adottano un bassissimo profilo, si allontanano da Montreal per vivere più vicino alla natura (sono vegani e animalisti da secoli) e non inondano decisamente il mercato: Nekyia, di fatto autoprodotto come capiremo meglio dopo, finisce sugli scaffali otto anni dopo Venus Armata (quest’ultimo, nello stesso periodo, viene ristampato con il sound che la band voleva avesse già nel 2014). Nekyia è ancora una volta un album che li fa sembrare mistici, eterni, fuori dal tempo, come sempre con un quasi inspiegabile retrogusto medievaleggiante e folk ad affiancare i drone distorti e la voce di Geneviève. Io li seguivo e li ho persi durante il mio viaggio. Probabilmente ho sbagliato a lasciarli uscire dai miei ascolti. Quest’intervista è anche un modo per rimettere a posto le cose.
Vi conosco per merito di un’etichetta chiamata Alien8 Recordings. Anni incredibili: a quel tempo avevano scoperto Nadja, Tim Hecker, Sam Shalabi… Sii gentile, condividi un semplice ricordo di quell’etichetta e dei vostri inizi.
Geneviève Beaulieu: Portiamo nel cuore i primi giorni dei Menace Ruine e siamo grati a Gary e Sean della Alien8 per il loro interesse per noi. Gary, che ha una mente aperta ed è immerso profondamente nella musica dark al di là dei generi, riconobbe qualcosa di unico nel nostro sound mutante. Fu il primo a passare la nostra musica in radio e a invitarci a proporla dal vivo a Montreal. Da allora suonammo a Montreal un po’ di volte ogni anno. Alien8 organizzava showcases “dark” mensilmente, e anche se noi non eravamo particolarmente attratti dai live, potemmo suonare al fianco di artisti come Nadja, Daniel Menche e altri appartenenti alla comunità intorno ad Alien8, oltre che con altri progetti noise dei dintorni di Montreal. Fu un periodo divertente, da cui sono scaturite naturalmente delle amicizie. Anche se abbiamo lasciato Montreal dieci anni fa, è sempre un piacere incontrare Gary nel suo negozio di dischi Cheap Thrills. Quegli anni restano fondativi per noi.
Seconda curiosità (curiosità ventennale, ormai): come avete trovato il monicker “Menace Ruine”?
Decisamente una curiosità vecchia! Facemmo brainstorming coi nomi, scarabocchiandoli su pezzi di carta che poi cestinavamo. Menace Ruine, uno dei nomi con cui ero arrivata io – anche se non so come e perché – vinse alla fine. Siccome siamo franco-canadesi, Steve e io apprezzammo il suo significato buono sia in francese sia in inglese, o che almeno evocasse qualcosa di simile. C’è una forza poetica in questo nome che si adatta al tono “apocalittico” della musica e dei testi. In un certo senso preconizzò la precarietà del nostro percorso musicale, sempre sul punto di collassare… come il mondo stesso, e noi con lui.
Una cosa che ancora mi incuriosisce è il cambio tra Cult Of Ruins e The Die Is Cast. Cos’è successo tra il 2007 e il 2008?
Ascoltando la nostra prima uscita, il cd-r demo In Vulva Infernum, uno può sentire già lì gli elementi fondativi. È un mix di noise, elementi black metal, c’è anche un pezzo doom (“In Reverse We Die”), che ho fatto come tributo ai Blue Cheer dopo averli visti live al CBGB di New York. Ci sono anche tracce più melodiche, imperniate sulla voce come “Dark Mother” e “Permanently Liminal”, che tendevano allo stile di The Die Is Cast.
Gary ebbe un ruolo nell’orientare la direzione di Cult Of Ruins – col suo sound più noise/black metal – per la pubblicazione su Alien8. Insistette per includere la traccia “Bonded By Wyrd”, originariamente sul cd-r, mentre noi decidemmo di togliere “Feu Bon”, conservando solo la sua parte finale, “Atavism”. In quel momento, comunque, avevo già iniziato a lavorare sulle canzoni di The Die Is Cast, utilizzando testi scritti in precedenza. È sempre più semplice per me comporre quando ho un testo già esistente a guidarmi. Il processo creative fu quasi magico. Tutto sembrò andare al proprio posto automaticamente. Cantare su quei suoni densi, fuzzy, fu d’ispirazione, come se fosse un modo inconscio di ristabilire l’equilibrio. Gradualmente ci spostammo in quella direzione. Quando offrimmo The Die Is Cast ad Alien8 – non molto dopo Cult Of Ruins – eravamo fiduciosi che l’avrebbero pubblicato anche se era molto diverso, e andò così nel 2008.
C’è un filo rosso che passa per Velvet Underground attraverso Nico, Swans e vi raggiunge? Non l’unico possibile con voi, ma uno di essi, secondo me.
Posso vedere come tu riesca a collegare a noi Nico e Velvet Underground, ma Steve ed io non abbiamo mai ascoltato troppo gli Swans, in questo caso la connessione è improbabile.
Nekyia contiene materiale splendido. In molti casi ho pensato che invecchiate come il buon vino. “Umbra Horrenda” e “One Last Song” sono come il lavoro di un artigiano che conosce molto bene il suo mestiere. In particolare mi affascina il testo di “Umbra Horrenda”: stai pregando per la nostra estinzione?
Ha più a che vedere col piangere per le vittime della razza umana, e sperare che noi possiamo riparare i danni che abbiamo provocato. Crediamo davvero sia possibile? Non così tanto… anche se ci sono anime buone tra di noi. Abbiamo poca fiducia nell’umanità, siamo andati troppo oltre. Siamo testimoni di guerre tra le più crudeli, disastri naturali, specie che si estinguono, distruzione per tutta la Terra. La nostra “ombra orrenda” sul mondo ci sta inghiottendo. Non abbiamo davanti un futuro luminoso, sempre che ce ne sia uno.
Questa canzone parla della nostra “ombra collettiva”, ma anche di resilienza. Il personaggio che l’ha ispirata – il meraviglioso Oliver, un orso salvato dall’organizzazione Animal Asia – ha vissuto trent’anni ingabbiato in una delle fattorie cinesi dove estraggono la bile dagli orsi. Dopo il suo salvataggio ha vissuto quattro anni felici in una delle riserve di Animal Asia, e quasi sembrava aver perdonato gli umani per l’inferno che gli avevano fatto passare. Anche senza pregare per essa, non possiamo che sentire che la nostra estinzione garantirebbe ripresa a questo pianeta, permettendo ad animali e piante di rigenerarsi.
Hai pubblicato un album solista. Ho letto che la storia di questo disco risale al periodo 2011-12. Sembra che voi, come artisti, abbiate una diversa percezione del tempo. Oggi tutto invecchia molto velocemente. Non sembra importarvene. Per me il 2011 è un secolo fa. Per voi?
Nel 2011 ero immersa profondamente in Menace Ruine e Preterite (progetto tra drone e folk di Geneviève con il musicista James Hamilton, del quale non ci siamo mai occupati, ndr), dunque l’ispirazione per l’album solista mi colse di sorpresa e non riuscii ad applicarmici per bene. Non ho problemi a lasciar riposare il mio materiale finché non arriva il suo momento, specie quando sento che quel materiale è senza tempo e fuori dalle mode. Comunque sia, qualcosa di strano è accaduto dopo che abbiamo pubblicato Venus Armata nel 2014 e ci siamo trasferiti nei boschi. C’è un gap nel tempo che trovo difficile spiegare. Anche se io vivo ogni momento, ho realizzato dopo che sono passati molti anni senza che me ne accorgessi davvero. Il tempo è molto una questione percettiva e questo diventa più pronunciato quando invecchiamo. Non me ne preoccupo. Ciò che conta è che ogni cosa arrivi quando è pronta, libera da pressioni esterne, soprattutto quando si sente che è giusto.
I vostri nuovi album sono stati pubblicati dalla vostra etichetta, Union Finale. Avete anche ristampato Venus Armata del 2014, uscito per Profound Lore. Ora avete il controllo completo del vostro lavoro. Penso sia più importante per voi questo che avere più visibilità su una etichetta consolidata. Mi sbaglio?
Abbiamo deciso di ristampare Venus Armata perché non eravamo del tutto soddisfatti del sound della versione 2014. Siccome riteniamo che le nostre capacità siano migliorate, abbiamo lavorato con Gus Elg, che era stato eccezionale con Nekyia, per remixare e rimasterizzare Venus Armata. Adesso suona come davvero lo abbiamo sempre voluto. Pubblicare i nostri dischi su Union Finale non è tanto il controllo artistico, quando la libertà di andare col nostro passo, gestendo i progetti alle nostre condizioni.
Detto questo, non è che ci siamo sentiti sotto pressione con le etichette con le quali abbiamo lavorato, abbiamo ricordi positivi. In ogni caso, dato che la nostra musica non appartiene chiaramente a un singolo genere, trovarle la vera casa è sempre stato difficile. Per esempio abbiamo vissuto una grande esperienza con Chris Bruni alla Profound Lore – è un vero professionista, di mente aperta, e ci ha trattato molto bene – ma è finita che ci hanno incasellato nella scena metal. Anche se alcuni fan metal possono connettersi a noi, non siamo abbastanza metal (se non proprio per niente) per il resto dell’audience di quella scena. Ci piace il metal, ovviamente, ma è un’etichetta che non fa il bene della nostra musica.
Gestiamo quasi tutto da soli, dal registrare al missare, all’artwork e al design, e raramente suoniamo dal vivo. Quindi pubblicare la nostra musica da indipendenti è stato un passaggio naturale. Diamo anche peso al contatto diretto con le persone che comprano i nostri album, anche se una maggiore visibilità sarebbe la benvenuta. Forse un giorno troveremo una casa migliore per la nostra musica o un modo per collaborare con una label più grossa così da raggiungere più gente.
Non è appunto così semplice vedervi dal vivo. Perché l’Amplifest?
È un festival meraviglioso, con un’atmosfera amichevole e familiare. Abbiamo avuto un’esperienza fantastica in Portogallo nel 2011 con André di Amplificasom (l’organizzazione dietro all’Amplifest), anche se non abbiamo mai avuto l’opportunità di suonare all’Amplifest. È incredibilmente gentile e rispettoso sia verso gli artisti che verso il pubblico. È stato audace da parte sua invitarci a esibirci all’edizione del 2024, soprattutto perché avevamo intenzione di fare del nostro spettacolo del 2015 al LUFF la nostra ultima esibizione di sempre. È stato molto persuasivo e non potevamo dire di no. Anche il tempismo è stato perfetto, poiché stavamo già considerando uno spettacolo a Montreal nello stesso periodo, alla Cinémathèque Québécoise, un altro meraviglioso invito che abbiamo ricevuto diversi mesi fa. Quindi, abbiamo deciso di fare entrambi. E c’è un’altra cosa che ci ha aiutato a prendere la decisione: compirò 50 anni il weekend dell’Amplifest. Sarà un compleanno memorabile.