ALL PIGS MUST DIE, Nothing Violates This Nature
Avere Ben Koller dei Converge alla batteria è pura garanzia di qualità.
Partendo da questo assioma universale e aggiungendo precedenti lavori come il devastante ep omonimo e l’ottimo debutto God Is War di due anni fa, c’era da aspettarsi che la nuova fatica in studio degli All Pigs Must Die fosse un disco, se non storico, quantomeno eccellente. Detto in cinque parole, quest’album è una bomba. E vi scoppierà dritto in faccia.
Il primo impatto è quasi spiazzante: già quanto s’è ascoltato in precedenza dalla band statunitense non era materiale proponibile a San-Remo, beninteso, ma le canzoni portavano avanti una violenza sonora di stampo marcatamente hardcore, con profonde radici punk-crust. Già dalla prima traccia, invece, si respirano grindcore e thrash metal di slayeriana memoria a tutto regime. Non che sia qualcosa di sgradevole, semplicemente una svolta così decisa e, vien da dire, un’evoluzione del suono così consapevole e smaliziata, oltre a una padronanza degli stilemi del genere così solida dopo nemmeno tre minuti d’ascolto, fanno senza dubbio alzare i sopraccigli dalla piacevole sorpresa.
“Silencer”, la seconda canzone, aumenta ancor di più l’adrenalina, proponendo metronomi e divisioni ancora più tirate, fraseggi dissonanti che strutturano il pezzo e una compattezza davvero invidiabile. Ma è con la terza, “Primitive Fear” che la mandibola inizia seriamente a risentire della forza di gravità: blast beat, giri degni di un gruppo cresciuto a pane e Napalm Death e un retrogusto d’ispirazione quasi black metal che viene tradito nel giro d’apertura. Tutto questo condito sapientemente con rallentamenti e cadenze che convogliano l’intensità del pezzo in un finale tanto trascinante quanto catartico. Insomma, una canzone fatta di puro talento spacca-ossa.
Da qui si entra in una sezione più cupa del disco, aperta dalla tribaleggiante e ipnotica “Bloodlines”, sviluppata dall’oscura e sinistra “Of Suffering” (il cui inizio contiene addirittura quello che potrebbe essere un mezzo eco di “Freezing Moon” dei Mayhem) e conclusa dalla massacrante “Holy Plague”, che riporta parzialmente il discorso su binari hardcore, per poi esplodere in un ritornello caotico e violento, seguito da un rallentamento che non lascia un attimo di respiro nonostante l’accenno di melodia del fraseggio finale. L’anima e l’attitudine più punk riaffiorano ancor in alcuni passaggi di “Aqim Siege” e nell’apertura di “Sacred Nothing”, sempre e comunque imbastardite a dovere da colate di grindcore, cortesemente riversate sull’ascoltatore da un Ben Koller indemoniato che farebbe invidia a un qualsiasi batterista di genere.
“Faith Eater” ci avvisa che l’album sta per volgere al termine, esordendo e chiudendo ciclicamente con una sezione quasi sludge inframezzata nella parte centrale da un d-beat forsennato, che sembra uscito dritto dritto dalla scena newyorkese anni ’80. Ma spetta alla magnifica “Articles Of Human Weakness” mettere il punto a questa seconda prova degli All Pigs Must Die. In quest’ultima traccia si compie un piccolo capolavoro di sintesi: la band riesce a unire la brutalità del grindcore, le sonorità stridenti e annerite che qua e là riaffiorano nel disco e la tipica, genuina spontaneità violenta dell’hardcore.
Ascoltare questo disco è un’esperienza tanto facile quanto gustosa, i brani scorrono via fluidi, godibili e si ha quasi la speranza recondita che non debba finire dopo l’ultimo pezzo. Trovare un album estremo talmente assimilabile e semplice da ricordare già dal primo ascolto è cosa rara e tale qualità è di certo dovuta a una cura e ad una scaltrezza notevoli nella composizione dei brani, oltre che a buon gusto e a mestiere non indifferenti nel maneggiare la materia in questione.
Gli All Pigs Must Die hanno fatto centro: se ogni album fosse così ben composto, ben curato e ben eseguito, vivremmo in una società musicalmente ideale.