ALL PIGS MUST DIE, Hostage Animal
Uscito già da un po’, Hostage Animals è il terzo album degli All Pigs Must Die, una realtà nata dall’incontro tra musicisti che non hanno certo bisogno di presentazioni e che ha saputo ritagliarsi un posto nel cuore degli amanti dell’estremismo sonoro a cavallo tra metal e hardcore, con una particolare miscela che si è andata via via affinando e ha accresciuto notevolmente la sua complessità grazie all’ingresso di Brian Izzi dei Trap Them. I quattro anni passati dal precedente Nothing Violates This Nature, infatti, portano in dote una band più nera e claustrofobica, meno focalizzata sulla botta di pancia e capace di apportare variazioni al tessuto sonoro, comprese delle momentanee pause che non smussano, bensì accrescono l’effetto devastante dell’insieme. Tra sludge, richiami agli Integrity più oscuri e, in generale, voglia di donare profondità al proprio assalto all’arma bianca, gli All Pigs Must Die sono riusciti a comporre un album che, pur senza abbandonare la furia iconoclasta dei suoi predecessori, riesce a catturare l’attenzione dell’ascoltatore senza prenderlo per sfinimento, sebbene la componente nichilista e l’attitudine full-speed-ahead non sembrino voler lasciare facilmente il comando all’interno di un mix che continua a macinare note come si temesse di perdere per sempre l’opportunità di imbracciare uno strumento. Gli amanti della band nella sua forma più viscerale non si devono preoccupare, non si troveranno di fronte a lunghe litanie al rallentatore: semplicemente gli All Pigs Must Die hanno deciso di lasciare più spazio alla componente sludge/doom e alla ricerca di atmosfere plumbee come spezia per allargare l’arsenale a loro disposizione e offrire un panorama di distruzione quanto mai vivido e palpabile. Resta l’aura “scoglionata” e ostile che da sempre circonda ogni uscita dei suoi artefici, quell’approccio da reietti che ha attratto molti devoti sin dall’esplosivo debutto, ma si tratta anche di un passo in avanti che dimostra la ricerca di una propria via e di un proprio percorso evolutivo. Come sempre in questi casi, si parla di un disco che presenta due pulsioni: c’è un’anima ancora saldamente attaccata alla vecchia formula vincente e una più ragionata (se vogliamo matura) che tenta di distaccarsene per offrire qualcosa di nuovo, con il risultato di non apportare cambiamenti radicali ma di fotografare un passaggio con i pregi e i difetti che questo può comportare. Gli All Pigs Must Die hanno capito che dopo quattro anni non era possibile reiterare sic et simpliciter i primi due album (anche perché non ci sarebbe stata più sorpresa) ma stanno ancora lavorando per costruire il loro domani. Vedremo se questo tentativo andrà a buon fine, per ora ci gustiamo questo succoso tritacarne che non fa comunque rimpiangere il tempo speso ad ascoltarlo.