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Alkahest: Paul Chain mastermind of doom

Paul Chain

Nel 1995 pubblica il lavoro Alkahest, dal nome di una presunta medicina/solvente ipotizzata dall’alchimista Paracelso. I titoli delle canzoni sono in inglese, ma la lingua usata per cantare alcune di queste è puramente di fantasia, cioè inventata da lui stesso, anche se foneticamente simile all’inglese. Talento istrionico senza confini quello di Paul Chain, forse uno dei più grandi chitarristi metal, purtroppo ignorato da media, ascoltatori e grosse etichette, quelle che gli avrebbero dato la meritata visibilità.

L’album è composto da otto episodi (ma ci sono versioni con più brani) di grandioso doom metal. Del resto cosa vi aspettavate da questo pazzo? Un pazzo che però tira fuori riff da manuale, con atmosfere degne della migliore tradizione Black Sabbath e Saint Vitus. Questi riff, uniti allo strano tono di voce, come se dicesse uno spettrale sermone, rendono Alkahest forse uno dei lavori più azzeccati usciti dalla mente infernale di questo pesarese. Insomma, in teoria fa parte di quei dischi straordinari, ma spesso trascurati, che dovrebbero appartenere alla collezione di qualsiasi ascoltatore serio, se ancora ne esistono! Ci troviamo – ospite alla voce – anche Lee Dorrian (Napalm Death, Cathedral), che scrive alcuni testi e canta la seconda tranche del lotto, che va dalla sesta alla nona traccia.

Alkahest fu originariamente pubblicato in formato cd e lp nel 1995 da Godhead Records (GOD 013 CD / LP), per poi essere ristampato nel 2013 dalla Minotauro Records (M 2013-2/-1), sia in digisleeve, sia in doppio vinile, con un nuovo mastering curato da Noel Summerville (Minotauro ha ristampato il cd anche quest’anno). Contiene tracce stupende come “Roses Of Winter”, basata su di un massiccio riff di matrice sabbathiana, tinto però dalla genialità di Catena (magnifici gli incastri sonori che costruisce con i cori e i turbinii di hammond), e le affascinanti composizioni con suoni sinistri di “Sand Glass” e “Three Water”; stesso discorso per “Voyage To Hell”, che è introdotta brevemente da un organo satanico e offre grandiose cavalcate di chitarre taglienti, ma soprattutto un riff iniziale coi controcazzi, ennesima stupenda trovata di Chain. Gli assoli sono in generale eccezionali e, quando sono usati in concomitanza con l’effetto wah-wah, quest’ultimo non funge da decorazione, bensì da strumento aggiunto, a mio parere quasi come fosse una tastiera. Insomma, la genialità di Paul negli assoli si vede anche da come li compone e li inserisce nel contesto del pezzo. Sempre “Voyage To Hell” è la prima canzone del set cantate da Dorrian (le interpreterà tutte ottimamente, aderendo bene al songwriting di Paul Chain), poi si continua con le tastiere solenni e le oscure declamazioni apocalittiche di “Static End”, la ballata psycho-mistica di “Lake Without Water” e infine la maestosa e claustrofobica “Sepulchral Life”, doom-song per antonomasia, lenta, drammatica, da brivido nella schiena, che in realtà non dura venti minuti, perché dopo otto e mezzo c’è solo un silenzio tombale, fino a quando, a trenta secondi dalla fine, riappare Dorrian che recita una poesia.

Che il doom sia con voi.