ALGA KOMBU, In Fin Dei Corpi
Mentre mi appresto a scrivere questa recensione (una delle poche in prima persona al posto della ben più professionale terza) ho appena spento una sigaretta e – con moto di fastidio – anche la televisione, dopo un veloce zapping e la constatazione che i talk show serali si incentrano anche oggi sull’ennesima tragedia familiare da scavare con fare quanto più morboso possibile o in alternativa sull’ennesimo fenomeno di costume nato e cresciuto nell’Italia del Bunga Bunga. A questo punto, oppresso dalla consapevolezza che questa nazione non uscirà da una crisi culturale ormai radicata nel tessuto sociale con effetti ben più tragici di quella economica, l’incontro con la musica delle Alga Kombu appare come una sana ventata di speranza, una sorta di luce in fondo al tunnel che vale più della somma delle (efficaci) note e delle (importanti) parole contenute, per assumere un valore altro e salvifico. Posto che al lettore ben poco interessi di questi pensieri personali, resta da spiegare cosa si annidi all’interno del cdr+zine che la Sincope ha pubblicato in edizione limitata, il che è presto detto: puro postcore rumoroso a cavallo tra noise-rock e punk, con una forte deriva Nineties e una spiccata attitudine da riot grrrl, con testi impegnati e mai banali tra presa di posizione sociale e coscienza di sé. Il tutto cattura l’attenzione e si insinua sotto pelle, fa riflettere e colpisce il segno, senza troppe pose o abbellimenti, eppure mai lasciato al caso o tirato via. Come la batteria pulsante di “La Cultura Dello Stupro” un brano che arriva dritto al punto: e non sai che fare non riesci a fermare il rumore col mantra della questione privata… la vedi la senti non è una questione privata. Forse, anche questa recensione potrà apparire a qualcuno come una questione privata, ma sarebbe il caso che certe forme espressive tornassero ad essere patrimonio comune e ci sollevassero un minimo dalla merda che ci circonda, almeno un poco tanto per riuscire ancora a respirare.