ALEXANDER HAWKINS, Iron Into Wind
“Così nacque uno dei grandi artisti del secolo. Chillida lavorava con materiali pesanti, di quelli che affondano nella terra, ma le sue mani poderose lanciavano in aria il ferro e il cemento che, volando, scoprono altri spazi e creano altre dimensioni. Prima, nel calcio, faceva lo stesso con il suo corpo”. Così inizia “L’uomo che trasformò il ferro in vento”, un racconto incluso in “Splendori e miserie del gioco del calcio” del grande scrittore uruguagio Eduardo Galeano, dedicato alla peculiare figura di Eduardo Chillida, portiere della squadra basca della Real Sociedad, che divenne scultore a seguito di un grave infortunio che pregiudicò la sua carriera sportiva. Una mattina, in cui si doveva esibire ad Amsterdam, passeggiando nei giardini del RijkMuseum, Alexander Hawkins ha avuto l’illuminazione per il titolo di questo suo secondo lavoro in solo, dopo aver ammirato una delle ampie strutture di acciaio di Chillida, intitolata “Pettine del Vento”, forse l’opera più emblematica dell’artista, parte di una serie di ventitré, cominciata nel 1953 e terminata nel 1999. Interrogato sul significato del suo lavoro, lo scultore all’epoca disse: Bisogna lasciarla aperta perché è un’opera aperta. Ognuno di noi può plasmare la sua propria interpretazione. Quest’opera presenta una serie di chiavi per poter afferrare e proteggere un’interpretazione. È un’opera che porta a interrogarsi sull’ignoto dell’orizzonte davanti a noi e del futuro che ci aspetta. Queste stesse parole si prestano perfettamente a definire il magnifico lavoro del pianista inglese; Iron Into Wind è un disco immaginifico, enigmatico, aperto, sensuale, lievissimo e denso, lirico, selvatico ed elegantissimo. Un pianismo libero e fluente, tra spigoli free, ruggini novecentesche, calibratissime esplosioni memori delle apparentemente folli ma in realtà misurate architetture di un Cecil Taylor, e la capacità di tramutare appunto il ferro in vento, cioè di saper attendere un errore o l’inaspettato per farlo poi diventare qualcos’altro, catturarlo e incorporarlo in modo da far accadere altro, come suggerito ad Hawkins da un suo partner, il sassofonista Evan Parker. Improvvisazione libera, materiali tematici attinti dal folklore, come secondo la lezione del compositore ceco Leoš Janáček e la grammatica jazz di un gigante come Mal Waldron, noto per il suo lavoro in solitaria ma anche per aver accompagnato John Coltrane, Eric Dolphy e Billie Holiday. Ripetizione di un tema, economia dei mezzi, non lasciarsi travolgere dalla propria capacità tecnica, mettendo tutto il proprio bagaglio espressivo al servizio della musica in modo da estrarre il massimo potenziale emotivo da ogni nota. Imprendibili figure che scivolano sulla pelle come pioggia, perfette ombre avant-gospel, costellazioni che ammiccano alla cosmologia di Sun Ra, studi in cui convergono sapienza accademica e calibratissimo furore cameristico; Hawkins, ammirato l’estate scorso in un solo magnifico a Sant’Anna Arresi oltre che con il suo quartetto (l’ottimo Uproot, con la cantante Elaine Mitchener) e con il fiammeggiante Chicago London Underground, si conferma un compositore e uno strumentista extra-ordinario, dotato di un talento vivido e di orecchie spalancate verso l’ignoto, testa fertile di domande & idee e cuore aperto. Dodici tracce una più bella dell’altra, nitide e ogni volta diverse come una poesia di Wisława Szymborska. Nostalgie di futuro, cronache di domani, grandi progetti per il nostro passato, Panta Rei, scavare nelle rovine della Storia non dimenticando che la Rivoluzione si può fare solo non smettendo mai di pensare che l’esistente può essere cambiato.
“Luccicavano i sogni sulla tela bianca.
Due ore di scaglie lunari.
C’era l’amore su una triste melodia,
c’era il ritorno felice dal vagare”
Un musicista davvero prezioso e un ascolto non meno che necessario.