ALESSANDRO FIORI, Plancton
Ascoltare il nuovo disco di Alessandro è come osservare un morto, senza pudori e lasciando trasparire tutti pensieri senza filtri. Disturba, attrae morboso e si rivela un microcosmo di forme di vita a cui non pensiamo mai, ma che ci sono accanto ogni giorno, anche quando vivi non lo siamo più. Ha ormai del tutto abbandonati i Mariposa (o almeno così pare), ma è sicuramente pronto ad altri progetti, ma conserva ancora una cifra musicale fatta di incursioni musicali “troppo” colte ma beffarde come il sorriso del Joker. Accasatosi alla Woodworm, però, Alessandro abbandona il clima del precedente Questo Dolce Museo e si immerge in un mare purpureo di note a incastro provenienti dalle più disparate ispirazioni. Lui cita Frank Brait e Giulio Escalona, ma in Plancton si possono ravvisare anche Wyatt, le splendide storture cantautorali di Marco Parente e l’idea fondante di mescolare soluzioni elettroniche di base con intuizioni prog di alta caratura tecnica. Per essere rapiti del tutto servono attenzione e amore per una sorta di perversa fragilità o per desiderabili repulsioni: come godersi l’odore della benzina o i processi che portano la decadenza a trasformarsi in nuova vita. Un’autopsia sperimentale.